Occorre innanzitutto dire che la crisi finanziaria negli U.S.A. è scoppiata perché la Finanza si è sempre più sviluppata in questi ultimi anni in modo autoreferenziale, slegata cioè dall’ Economia reale attuando la deregulation tanto cara a Bush e ai suoi predecessori illustri come Reagan (e la Thatcher nel Regno Unito) che puntava sulla più alta libertà di manovra e azione, quasi a significare che questo sistema fosse in grado di ritrovare al suo interno capacità di auto controllo.
A questo va aggiunto il rallentamento e ripiegamento dell’ Economia americana che, come ovunque, ha andamenti ciclici, per cui si è prodotto un risultato esponenziale che somma gli effetti negativi della prima con quelli della seconda.
In un Mercato globale è evidente che questo fenomeno ha decisi effetti su tutte le altre economie (pure la Cina, il cui Pil cresce meno degli anni passati) per cui, come un virus, la crisi finanziaria e quella economica si trasmessa è con effetti che sembrerebbero analoghi se non (speriamo) identici.
Le cause della crisi finanziaria hanno influenzato il sistema europeo dove le regole peraltro sono più stringenti, ma dove esistono, è bene precisarlo, comunque errori e vizi domestici.
Anche qui infatti la Finanza – se pur con maggiori vincoli – ha offerto strumenti nuovi in modo generalistico confidando che la concorrenza consentisse l’auto apprendimento da parte di imprese e risparmiatori.
Non è così: la realtà ha dimostrato che ai prodotti sofisticati di raccolta o di impiego non corrisponde assolutamente una adeguata e correlata conoscenza da parte dei risparmiatori, degli imprenditori e delle famiglie che possono aver utilizzato per la scelta il sistema comparativo, ma hanno molto spesso non percepito i rischi potenziali connessi.
Infatti oggi molti risparmiatori, famiglie ed imprese (compresi gli enti pubblici) sono spaventati dalla loro situazione finanziaria che evidenzia criticità che nemmeno hanno ipotizzato al momento della scelta e che il sistema del credito non ha molto spesso lasciato trasparire (non potendo peraltro prevedere tutti i casi che il futuro potrebbe riservare).
Intendo dire che chi “gioca” in borsa direttamente sa perfettamente che rischi può correre, ma quando ad un risparmiatore, ad un impresa, ad una famiglia (o ad un ente pubblico) viene proposto un prodotto strutturato, questo presenza componenti complesse e complicate che non sono facilmente comprensibili e danno risultati diversi da quelli attesi in una situazione di andamento lineare dell’economia e della finanza; figurarsi poi quando economia e finanza sono sottoposte a shock: i risultati si possono rivelare drammatici e senza protezione alcuna.
La crescita economica sta rallentando sempre di più e la prospettiva, purtroppo, è addirittura di una sua regressione già negli U.S.A. e prossimamente in Europa, accelerata, come detto, dalla crisi finanziaria.
In questi contesti la responsabilità della politica sono enormi perché non è la prima volta che emergono crisi sia finanziarie che economiche (anche se non di questa portata), ma una volta superati i punti critici proprio la politica si è disinteressata di questi problemi, non completando l’opera di regole e programmi che ci potessero meglio mettere al riparo da future e possibili nuove crisi.
Negli U.S.A. l’economia ha cominciato a fornire segnali di ripiegamento alla fine del secolo scorso (secondo mandato Clinton) ed infatti al cambio di presidente (novembre 2000) la recessione era decisamente in atto ed ha messo a nudo la fragilità della new economy che sul piano finanziario ha presentato conti assai salati ed ha influenzato anche la Finanza europea .
In quel periodo, in Europa, la crisi economica è avvenuta qualche anno dopo, ma con andamenti difformi: ha colpito infatti di più Germania, Francia e Italia e molto meno Spagna e Regno Unito, ma le azioni politiche dei paesi in regresso si sono concretizzate in modo diverso; addirittura l’Italia ha semplicemente (2001-2006 con il IV Governo Berlusconi) cavalcato l’onda senza sviluppare un nuovo progetto di politica economica.
Dopo questa epoca economia e finanza hanno ripreso la loro crescita anche se in modo disatricolato visto che gli Usa sono cresciuti molto meno dell' Europa e questo ha prodotto lapprezamento dell'Euro sul dollaro.
In Italia pur in assenza di una politica economica è stata l’impresa nel suo insieme che ha trovato la capacità di adeguarsi e sfruttare – anche troppo – l’opportunità data dal rallentamento dell’economia (fino al 2005): i produttori di “bottoni” aggrediti dal l’import cinese si sono trasformati in produttori di macchinari per la produzione di bottoni e l’export è aumentato pur dovendo misurarsi con un dollaro sempre più svalutato, puntando su prodotti di qualità.
Già, proprio così: la mancanza di una nuova politica economica ha consentito una colossale redistribuzione di ricchezza accentuando le differenze economiche fra gli italiani (gettando sull’incolpevole Euro tutte le responsabilità) ed oggi alla vigilia di una nuova, ciclica, crisi economica quel che non si è voluto fare a suo tempo presenta un conto salato comprensivo di interessi.
Del resto oggi sul piano finanziario sta avvenendo proprio questo: l’amministrazione Bush e quella Ue stanno mettendo in campo azioni che costano qualche trilione di euro per riparare i danni commessi dalla finanza “creativa”, ricreare fiducia e tutela del risparmio; non sono operazioni da poco sia per l’entità sia per il modo, visto che sta avvenendo una – se pur temporanea – nazionalizzazione delle banche dei principali stati liberisti (Usa, Regno Unito, Germania, Francia).
A questo vanno aggiunte anche le azioni per frenare il rallentamento, la stagnazione dell’Economia, azioni che sembrano però essere delle semplici toppe, del tutto congiunturali e molto poco strutturali (soprattutto in Italia).
Non si sente infatti parlare di nuove regole nel cui perimetro può e deve agire la Finanza: la deregulation ha permesso porcherie gigantesche, ma non si sente parlare di nuove “regole del gioco” e questo significa che, una volta passato il maltempo, non siamo assolutamente al riparo da nuovi, futuri sfracelli.
Un passo determinante ed utile in questo senso sarebbe quello di attribuire alla Ue non più e non solo funzioni di coordinamento, ma un vero e solido strumento di governo comunitario che imporrebbe però ai singoli stati aderenti di trasferire l’autonomia alla quale non vogliono rinunciare.
Addirittura in questi giorni si assiste a dichiarazioni decisamente inopportune poiché rischiano di innescare fraintendimenti da parte dell’opinione pubblica; mi riferisco ad interventi del Presidente del Consiglio italiano relativi agli indici di solidità delle banche italiane che divulgati a borsa aperta risultano assai pericolosi per il regolare svolgimento delle trattazioni.
Questo tema va affrontato, se necessario con cautela e riservatezza e vanno prese iniziative - se necessarie - tempestive, ma non vanno certamente fatti proclami, soprattutto quando si è appena stabilito un programma di supporto del Governo – illimitato – in caso di necessità comprovata.
Sul piano economico si parla di sostegni all’industria (auto), di incentivazioni di tutti i tipi, ma questo dimostra che non vogliamo far tesoro delle esperienze (dei danni) del passato per favorire un miglior futuro: la flessione dell’economia deve essere utilizzata come una opportunità, per creare aggregazioni e sinergie, per ricercare efficienza, per attuare trasformazioni di processo e di prodotto.
Eppure il recente passato ha dimostrato che stimolare la ricerca di nuove soluzioni rifiutando aiuti di stato (peraltro vietati dalla Ue) ha dato risultati: la Fiat ad esempio ha invertito il suo declino ed oggi si presenta vaccinata, meglio di altre case automobilistiche, in questa fase di stagnazione del settore.
In altri settori come quello aeronautico, con Alitalia invece si è voluta ricercare una formula a tutti i costi “protezionistica” (per motivi elettoralistici), ma già in questi giorni sta mostrando i suoi limiti con la ricerca di alleanze con partner industriali sempre più obbligate e vengono pure colpite dalla Ue le ultime azioni, poste in essere per tenerla in aria (prestito ponte trasformato in mezzi propri).
Emerge per contro la paura che nella economia europea ed italiana si possano inserire iniziative finanziarie straniere (fondi sovrani), quasi si temesse un neo colonialismo al contrario.
E’ certamente un fenomeno, teorico, da non escludere, ma caso mai si possono predisporre regole di accesso e di vincolo per governarlo, utilizzandone i vantaggi: del resto si tratterebbe di grandi flussi finanziari che ritornerebbero al mittente.
Sempre sul piano economico, in Italia, poi assistiamo ad azioni difensive sul programma europeo di risparmio energetico e riduzione dei gas.
Si pretenderebbe un attenuamento ed allungamento del programma studiato da tempo, per poter sostenere indirettamente la capacità produttiva e quindi l’economia, nascondendosi al fatto che gli investimenti in questo settore e per questi obbiettivi, sono ancora e invece grandi opportunità non per produrre meno, ma per stimolare a produrre meglio ed in modo diversificato.
Ci sono imprese che da anni – intervenendo sul risparmio energetico e gestione dei rifiuti – hanno costruito il loro secondo business (accanto a quello principale); ci sono aziende come la Fiat che da un quarto di secolo progetta le sue autovetture pensando anche al loro smaltimento quanto andranno in rottamazione (la prima fu
Voler pensare di allentare le briglie quindi apparentemente sembra voler dare un vantaggio, ma in realtà si favorisce una minor attenzione al problema energetico e dell’emissione dei gas (che deriva soprattutto dalla produzione di energia), togliendo e diminuendo il senso di responsabilità sociale che deve interessare tutti i fattori produttivi.
Caso mai, su questo tema come su altri, occorre vigilare con molta attenzione affinché non vengano scaricate sugli indifesi e sui soggetti economicamente pi fragili le scorciatoie, per non metter mano al proprio ingegno ed al proprio portafoglio.
Di esempi ne abbiamo molti, ma uno su tutti tocca un po’ tutti noi: i sempre più numerosi rapporti di lavoro “flessibili” sono nei fatti stati trasformati in rapporti di lavoro “incerti”; questo ha influito poco sulla crescita del nostro Pil (la produzione è meno efficiente e di quantità) ed i redditi di lavoro derivanti non consentono per quantità e stabilità una crescita armonica dei consumi soprattutto di beni durevoli.
Concludendo la situazione critica finanziaria ed economica va governata con intelligenza e logica, senza cedere al desiderio di voler avvantaggiare o proteggere i più forti o ingraziarsi parte dell’opinione pubblica; diversamente ci troveremo, ancora una volta in un gioco delle parti, dove ufficialmente ci si strapperà le vesti o si mostreranno i muscoli, ma in realtà cambiamenti radicali non ce ne saranno e dovremo attendere la prossima futura crisi finanziaria ed economica per contare i danni e sproloquiare – ancora una volta – sui rimedi.
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