domenica, febbraio 12, 2012

RIFORMA DEL LAVORO: SULL' ART. 18 SI COMINCIA A RAGIONARE

Da indiscrezioni pubblicate oggi sulla stampa nazionale, si parla di incontri riservati a quattrocchi tra il Premier  Monti e il Segretario Generale Cgil Camusso, per confrontarsi su un nuovo modello di contratti di lavoro, sulle tutele, ecc. e lo status quo del mondo del lavoro appare ancora più chiaro con altro articolo di Repubblica a firma Roberto Mania.
Partendo da ques'ultimo "scopriamo" che il mondo delle partite iva, circa 9 milioni in totale, per quasi 4 milioni (60% donne)è costituito da lavoratori apparentemente indipendenti, mentre in realtà sono dipendenti  a tutti gli effetti.
Disaggregando i dati circa 2 milioni sono dipendenti a termine, 1,66 milioni sono a part time e 0,28 milioni sono lavoratori monocommittenti, lavoro prefissato, ecc.
Questa enorme categoria di precari (che rappresenta il 17% di tutti gli occupati ) disaggregata per fasce d'età vede circa 0,700 milioni nella fascia d'età 15 - 24 anni, 1,200 milioni tra 25 - 34,  1,070 milioni tra 35 - 44 e 0,982 millioni oltre i 44 anni d'età.
Aggiunge ancora l'articolo che la prima classe d'età, 15 -24, rappresenta il 55,6% degli occupati totali, quella da 25 - 34 il 23,8%, quella da 35 - 44 il 14,7% e quella oltre i 45 rappresenta il 10,6% degli occupati totali.
Aggiungo (fonte Istat) che nel quinquennio 2005-2010 il 71,5% dei nuovi assunti sono regolati da contratti a tempo.
Se analizzate più approfonditamente ci si accorge che questi sono dati veramente preoccupanti poichè i lavoratori over 45 precari sono uno su 10 degli occupati totali, mentre nella classe dei lavoratori di "primo pelo" uno su due è precario; nelle fasce centrali poi la preoccupazione rimane perchè quasi uno su quattro - nella fascia 23/34 anni - e uno su sei - nella fascia 35/44 - sono lavoratori precari.
E stiamo a domandarci perchè non cresciamo ?
Con l'incertezza del lavoro e quindi della produzione di beni e servizi è evidente che il nostro Pil ed anche i nostri consumi interni stentano a crescere ! 
Quanto alla copertura dell'art.18 questo riguarda il 65% dei lavoratori che operano soltanto nel 3% delle imprese, mentre per converso il 35% lavora senza tutele nel 97% delle imprese.
Questa sfilza di numeri vista in modo statico significa che il modello delle imprese italiane è costituito per la stragrande maggioranza da aziende sotto i 15 dipendenti  e sarebbe interessante, molto interessante capire, se questa realtà dipende da scelte produttive ed imprenditoriali specifiche e volontarie o soltanto perchè sotto la soglia dei 15 dipendenti vi sia più libertà di licenziare; stiamo infatti parlando di oltre 8 milioni di lavoratori e non penso proprio che si voglia fare impresa in Italia autolimitandosi nella struttura, nella dimensione e nell'espansione produttiva.
L'Italia è sempre quella della fabbrica all'ombra di ogni campanile.
Per converso le aziende con oltre i 15 dipendenti occupano oltre 15 milioni di lavoratori quindi anche qui si potrebbe dedurre - visti i dati -  che l'art.18 costituisce un elemento ininfluente nelle scelte produttive e impenditoriali.
Quanto al fatto che le imprese straniere abbiano remore ad investire a causa dell'art. 18, ho seri dubbi che questo sia il vero motivo di questa ritrosia.
E' vero che le imprese straniere investono meno in Italia che negli altri paesi Ue, ma ho il sospetto che il sistema di tutele non le spaventi proprio perchè diverse grandi aziende radicate da decenni in Italia se ne sono andate o se ne vanno per motivi strettamente produttivi o legati a scelte strategiche che ci passano sopra la testa.
Penso alla Glaxo che ha liquidato il centro ricerche composto da oltre 500 ricercatori in quattro e quattrotto, senza nemmeno tentare di venderlo; o all' Alcoa  (ex Alumix gruppo Efim) o alla ThyssenKrupp (ex Acciaierie di Terni ed altre) che si stano disimpegnando dagli investimenti e dalle acquisizioni fatte in Italia; oppure alla Fincantieri, produttore mondiale di bastimenti (quella che ha costruito la Costa Concordia per intenderci) che si sta spegnendo piano piano nell'indifferenza più totale, o alle Acciaierie di Piombino/Ilva acquistate in parte dal Gruppo Riva e in parte dal Gruppo Severstal.
Se la mia lettura del panorama è corretta quindi sono altri i motivi che precludono alle nostre imprese di crescere senza auto limitarsi.
In quest' ottica possono essere convincenti, se vere, le ipotesi di lavoro che sembrerebbero aver imbastito il Prof. Monti e la Camusso sul tema cos' spinoso dell'art.18.
Si parla infatti di ridefinire meglio i casi dei licenziamenti senza giusta causa per evitare di imbastire controversi talvolta inensitenti o improprie, ma poichè il problema sono i milioni di lavoratori precari da stabilizzare, perchè sia stabilizzata la produzione  e la sua crescita qualificata, valga la pena trovare un punto di mediazione che sospenda la norma temporaneamente nel caso di strabililizzazione dei precari e nel caso della nascita di nuove imprese.
Aggiungerei anche il caso di fenomeni di aggregazioni di imprese già operanti che per crescere ritengano di fondersi per aumentare la massa critica, per attivare economie di scala oltre che migliorare la qualità del prodotto.
Non dimentichiamo poi che nei fatti vi sono settori soprattutto del terziario (ristorazione e esercenti) e servizi ((anche assicurazioni e qualche banca) dove l'utilizzo del lavoro a tempo è assolutamente ingiustificato ed inappropriato.
Occorre quindi, per effetto anche delle esperienze del passato , che vi sia l'assoluto controllo di quel che potrebbe avvenire (tramite l'Inps o il Ministero del Lavoro), affinchè non avvengano le solite furbate, vista l'esperienza del recente passato dove la flssibilità ha si dapprima ridotto la disoccupazione, ma ora l'ha fatta riesplodere in modo preoccupante ed incontrollato.
Potrebbe essere un tentativo per togliere alibi a tutti.

martedì, febbraio 07, 2012

LE SINEDDOCHE CONTEMPORANEE

Assistiamo ogni giorno alla discussioni anche accese e indignate su vari temi, ma queste assistono l'analisi soltanto du una parte (per il tutto) proprio per evitare di analizzare il tema da tutti i punti di vista, quindi in modo approfondito tale da andare a ricercare tutte le motivazioni, le cause, le contro deduzioni e le possibili realistiche soluzioni.
Ogni i giorno i media ci segnalano le novità importanti su qualsiasi tema, ma su queste fioriscono dibattiti molto spesso inutili, parziali e fuorvianti.

La forte nevicata di venerdì scorso ha infervorato gli animi per le difficoltà della viabilità a Roma come se altrove non fosse caduta nemmeno una faliva di neve ed abbiamo assistito ad una specie di partita a tennis tra il Sindaco Alemanno e il Capo del Dipartimento della Protezione Civile Gabrielli, quando è evidente che la situazione metereologica è stata sottovalutata da molti.
Per una metropoli come Roma la sua latitudine aplifica fortemente gli effetti della precipitazione nevosa assai rara per cui non c'è l'abitudine delle strutture istituzionali e degli abitanti di vivere un simile fenomeno in modo sufficientemente organizzato; ne consegue che occorre avere l'umiltà di chiedere aiuto per tempo e non nascondere il fatto che il "fai da te" non ha funzionato.
Penso al fatto per esempio che l'Atac ha fatti uscire i mezzi senza pneumatici da neve o senza catene e qui la responsabilità è della sua dirigenza, ancor prima del Sindaco o della Protezione Civile.
La forte nevicata ha presentato fortemente il conto alla regione Lazio, ma anche alla Toscana, Umbria, Lazio, Romagna, Molise, ecc  (in certe zone sotto metri di neve) e balza all'cchio che tanti responsabili non hanno fatto. o hanno fatto poco la loro parte: penso ad Anas, Società Autostrade, Enel, Snam ecc., ma su questo non vola una mosca: sappiamo solo dei disagi o dei drammi mortali occorsi a diverse persone, decedute in modo atroce.
Quanto alla Protezione Civile, che ha il compito di coordinare tutte le funzioni di soccorso (Croce Rossa, Vigili del Fuoco, Esercito, Polizia, Carabinieri) si deve occupare della organizzazione a monte predisponendo piani di possibile soccorso, non certo preoccupare che gli impianti e le manutenzioni e siano fatte a regola d'arte ed i piani di intervento siano ben predisposti.
Queste sono dirette responsabilità dei vari enti e società di gestione, por con lo sconto delle precipitazioni nevose estremamente copiose.
Gabrielli e il Dipartimento della P.C. quindi possono e devono agire con tempestività, ma non li si può certo accusare del fatto che siano stati recentemente depotenziati (legge 10/2011), per cui la potenza di intervento sia diminuita; fatto che peraltro lo stesso Gabrielli denuncia.
Come spesso accade in Italia si passa da un estremo all'altro: con Bortolaso alla P.C. sono stati assegnati compiti non istituzionali; penso alla gestione degli eventi sin dalla loro progettazione e costruzione e non ai semplici piani di sicurezza da attivare per eventi programmati o per eventi climatici, metereologici e tellurici (imprevisti per assioma).
E evidente che tutto questo serviva invece ad accentrare, a gestire direttamente fenomeni utili al potere politico vigente (oltre che a possibile malaffare), dando peraltro il segnale a tutte le altre istituzioni, territoriali soprattutto, di liberarsi di responsabilità invece del tutto proprie.
Il Dipartimento della P.C. ha cambiato pelle, ma le istituzioni - pubbliche e private - si sono sentite ancora evidentemente demotivate o meglio deresposabilizzate, attendendo la manna dal cielo, mentre invece era neve!

Ma le sineddoche non finiscono qui: assistiamo da alcune settimane al dibattito relativo al tema del lavoro, ma come in passato ci si attacca su affermazioni, su concetti  sintetici per bloccare sul nascere eventuali possibili cambiamenti.
Peraltro se analizziamo le frasi - come quella dei "bamboccioni" dichiarata dal compianto Padoa Schioppa che ha fatto strappare le vesti a molti, ci si attacca sul termine per non affrontare realmente il prolema che invece è rimasto li del tutto insoluto.
Quando si sente parlare che il posto fisso non può essere garantito a vita a tutti si afferma una ovvietà, ma la reazione non è quella di affrontare il problema, ma quella di attivare un fuoco di sbarramento per non parlare affatto dei veri argomenti, nascondendo quindi i problemi.
Nella realtà tutti i lavoratori attivi,e ancor di più le giovani leve, sanno perfettamente da sempre che il posto non è garantito - infatti si parla di rapporto di lavoro a tempo indeterminato - e nella realtà già oggi nell'arco della vita lavorativa si cambia posto di lavoro più di una volta.
Stessa cosa quando si parla di lavorare in città diverse; certo la maggioranza di noi ha lavorato o lavora nel luogo di origine, ma sono sempre di più coloro che cambiano ditta e città e questo fenomeno viene da lontano.
Questo avveniva nel passato - penso infatti alla migrazione interna dal sud che ha fornito manodopera alla crrescita industriale delle imprese del nord - ed avviene ancora oggi .
Mio padre stesso, siciliano, classe 1908, ha sempre lavorato, per 45 anni, nel Triveneto (ogni mio fratello è nato in una città diversa) con solo due rientri nella sua regione: nel 1939 e alla fine degli anni 50; cosa analoga è occorsa ad un mio fratello ed anche a me stesso; i miei nipoti insieme a mio figlio hanno cambiato azienda più volte e non sempre vivono nelle città d'origine (alcuni addirittura all'estero); se ci guardiamo intorno nei nostri entourage vedremmo che non si tratta di casi del tutto personali, ma ne troveremmo numerosi del tutto analoghi nei quali le scelte sono state fatte con serenità e soddisfazione.
Altra sinoddica riguarda la frase  che molti gradirebbero una occupazione "vicino a mamma e papà", ma è anch'essa una ovvietà perchè è l'incertezza molto spesso che non fa volar via i nostri figli; quindi non hanno paura del futuro, ma non vedono prospettive adeguate che li confortino nella loro crescita umana e professionale.
Sono questi invece i motivi che tutti sanno, anche i Ministri "tecnici" ed i politici di lungo corso, ma che non si vogliono affrontare con coraggio e determinazione.
Infatti l'incertezza per chi si avvia al lavoro c'è sempre stata e sempre ci sarà; ma mentre un tempo nell'incertezza dei primi passi nel mondo di lavoro si poteva intravvedere un obbiettivo che ci desse stabilità, oggi invece questo non accade, o accade molto meno di un tempo.
E l'articolo 18 della legge 300/70 - checchè ne dica il Wall Street Journal - non è il tappo che blocca la nostra crescita economica, prchè esisteva in molti eventi che ho citato del passato .
In passato infatti i primi passi nel mondo del lavoro erano sempre incerti - che si facesse l'operaio o l'insegnante - ma poi seguivano evoluzioni che portavano alla stabilità.
Un neo laureato, per esempio, che si avviava all'insegnamento iniziava con piccole supplenze, poi con altre un pò più lunghe (sostituzioni per maternità), poi con incarichi annuali, eppoi con l'assegnazione di una cattedra magari divisa su più scuole o su più comuni della stessa provincia; l'operaio - anche specializzato - cominciava come apprendista in piccole ditte o presso artigiani, ma poi cambiando più di una azienda raggiungeva un posto di lavoro stabile in una azienda più grande e strutturata; oppure diventavo lui stesso artigiano o imprenditore.
Ne consegue che nel giro di qualche anno la stabilizzazione era raggiunta, con la possibiltà di metter su famiglia, ma senza precludersi la possibilità di cambiare ancora posto di lavoro (se non facevi carriera in azienda cercavi di farla fuori cambiando lavoro).
Oggi invece la precarietà sembra avere connotati piatti per cui spiragli non se ne vedono e queste sono le vere zavorre che limitano le proprie aspirazioni e che possono impaurire per l'incertezza che il futuro sembra far percepire.
Il fatto che l'Italia sia comunque da molto tempo la quinta potenza mondiale (per il momento fino  che i paesi emergenti con le loro centinaia di milioni di abitanti non ci supereranno) dipenderà pure da un modello socio economico che ha una certa staticità e stabilità, ma anche da una flessibilità congenita da sempre esistita, che ha prodotto i suoi buoni frutti.
Erano altri tempi quando le famiglie - numerose - poggiavano quasi sempre su un solo reddito; ma  almeno 40 anni fa le famiglie si sono spesso appoggiate su due redditi (e meno figli).
Questo ha consentito la crescita economica, la crescita dei consumi - anche quelli superflui divenuti necessari - ma è evidente che la volatilità dei rapporti di lavoro avveniva sempre più in un area geografica circosritta, poichè socialmente ed affettivamente non si potevano certo "smontare" i nuclei familiari per rincorre nuovi posti di lavoro a distanze poco sostenibili poichè queste scelte comportano necessariamente il cambio anche per l'altro coniuge; del resto l'Europa e l'Italia è una area circosritta e densamente popolata e non può essere paragonabile agli Stati Uniti che è una nazione con una popolazione in perenne transumanza, laddove tante piccole e medie comunità nascono, crescono e muoiono nel giro di qualche decennio.
Oggi stiamo tornando indietro dove i doppi redditi scendono e dove e difficile trovare lavoro e molto facile perderlo.
Come sopra conto, peraltro estremamente determinante, i livelli retributivi crescono miseramente per cui non vi sono più le opportunità appetibili del passato; molto spesso si cambia lavoro per necessità e molto meno per volontà, ma è del tutto prevedibile che sarà meno soddisfacente sul piano economico di quello precedente.
Ecco perchè la volatilità del lavoro auspicata dell'attuale governo trova resistenze poichè non ci sono presupposti economici validi per cambiare facilmente; ed ecco perchè i giovani, pur coraggiosi, vivono vicino a mamma e papà. 
Ecco perchè la nostra generazione, che ha assistito la vecchiaia dei nostri genitori, si trova oggi  molto spesso ad assistere la gioventù dei nostri figli.
Cos'è cambiato ?
Molti lo sanno, ma nessun lo dice: si è rotto il principio della intedipendenza tra capitale  e lavoro (peraltro sempre in equilibrio instabile), ma soprattutto si è rotto il principio che tiene ben saldi gli aspetti sociali a quelli economici dell'impresa e del lavoro.
Intendo dire che il capitale non funziona senza lavoro e viceversa e che gli aspetti sociali hanno sempre strette correlazioni economiche e viceversa.
Questo significa che per l'impresa deve aver ben chiaro che la sua mission economica implica aspetti sociali imprescindibili, come peraltro i lavoratori dipendenti devono aver ban chiaro che l'aspetto sociale ha sempre impliciti rivolti economici per se e per le imprese.
Auspicheremmo che oltre che ai lavoratori in servizio ai quali si è allungata la vita lavorativa per produrre di più, vi sia una più ampia disponibilità da parte dei nuovi giovani lavoratori a cercar lavoro, ma se le condizioni economiche sono quelle che tutti sappiamo ( per i neo assunti e per i lavoratori ancorchè stabilizzati operanti in aziende in debito d'ssigeno))è evidente che non possono essere soddisfatte che le necessità primarie di sostentamento; pensare a metter su famiglia e a far figli, quando  non ci sono obiettivamente spazi e servizi a prezzi coerenti, è e evidente che si usa la buona vecchia regola di star fermi per non insabbiarsi ancor di più.
Penso ad esempio ai lavoratori dell' Alcoa, multinazionale dell'alluminio, attratti dall'insediamento dell'impresa  in Sardegna che ha deciso di chiudere i battenti andandosene altrove; c'è un bel dire che occorre avere la dispinibilità al cambiamento, ma, proprio ai sardi, popolo laborioso e disposto anche ad emigrare, che soluzioni ed opportunità possono essere credibilmente prospettate ?
L'Alcoa ha le sue ragioni, ma tutte queste famiglie che prospettive possono avere ?
Chiaro, chiaro: se un lavoratore trova nuovo lavoro in un'altra città non è detto che la sua moglie abbia la stessa opportunità; vi può essere il caso che lasci il certo per l'incerto e si ritrovi a dover subire uno dei tanti rapporti di lavoro precari; se poi hanno figli come potrebbero fare ?
Se le retribuzioni sono eccellenti gli spazi ci sono, ma se le retribuzioni sono dell'ordine del 700/900 euro mese - perchè questà è la realtà - e un posto al asilo nido o scuola materna, se c'è,  costa 600 (visto che mamma e papà son lontani) è evidente che il meccanismo si inceppa.
La stessa migrazione interna - pur sempre presente - ha volumi contenuti proprio per questi motivi: le retribuzioni sono quelle che sono e trasferirsi per sostenere il futuro da soli (e magari la famiglia al paesello) quando conosciamo il livello del costo della vita al nord, senza le economie dei gruppi familiari d'appartenenza, è evidente che anche in questo caso le rinuncie al trasferimento risultato del tutto comprensibili.
La rivoluzione del mondo dei rapporti di lavoro può essere quindi affrrontata senza impicciarsi su frasi o concetti, ma va analizzata senza riserve mentali sia da parte dei lavoratori (e le rappresentanze sindacali)che da parte delle imprese proprio perchè esiste la simbiosi inalienabile tra capitale e lavoro e tra economia e società.
Nuovi punti di intesa sono possibili, ma i "mea culpa" vanno fatti insieme fra le parti ed il Governo, soprattutto questo, non si può limitare ad allestire strumenti di sostegno perchè ribadisco questi possono far correre il rischio di costituire l'alibi per non affrontare le proprie riserve mentali e responsabilità.
Possono esserci modelli più moderni, ma deve esser chiaro che si deve trattare di extrem ratio. 
L'ho detto altre volte: i lavoratori hanno - forse per ragionevole timore - assunto posizioni statiche e troppo difensive, ma le imprese ha avuto una grande opporunità di ripartire con tanti contratti flessibili nel momento migliore - quello della nascita dell'euro -, ma hanno dimenticato che non possono soddisfare soltato il conseguimento dei migliori profitti possibili, frutto peraltro della maggior fascia di consumatori costituita dai loro 16 milioni di di dipendenti, da 5 milioni di autonomi (e 16 milioni di pensionati).
Occorre ricercare stimoli che riequilibrino i principi cui accennano prima: per esempio son passati almeno 20 anni dalla ultima manutenzione relativa ai distretti industriali, quelli che hanno prodotto una larga diffusione della media impresa ed oggi una "manutenzione"; ebbene  un rinnovamento di qei progetti è del tutto possibile senza grandi necessità di spesa da parte dello Stato poichè sono sufficienti indirizzi e stimoli che sostengano ed orientino impresa e lavoratori in questo mae magnum per soddisfare equamente le esigenze sociali ed conomiche dell' Italia.
Il pericolo maggiore è quindi quello di perdersi dietro alle frasi più o meno ad effetto per non affrontare con serietà i veri problemi del lavoro in Italia.



Note:
sineddoche (dal greco «συνεκδοχή», in italiano «ricevere insieme») è un procedimento linguistico espressivo e una figura retorica che consiste nell'uso, in senso figurato, di una parola al posto di un'altra mediante l'ampliamento o la restrizione del senso.

giovedì, febbraio 02, 2012

IL POSTO FISSO NON ESISTE PIU' ?

Il Prof. Monti con la sua intervista a Matrix di ieri sembra aver sconvolto il mondo del lavoro italiano, con l'affermazione, sintetica, indicata nel titolo.
In realtà il primo che espresse il concetto che flessibilità significava non più il posto fisso presso lo stesso datore di lavoro fu Massimo D'Alema quale premier nel periodo 1998-2000.
Nella realtà poi sono sempre di più i lavoratori che nella loro vita lavorativa cambiano il posto di lavoro, addirittura passando da occupazioni dipendenti a quelle autonome se non additittura imprenditoriali di vario "calibro" e in questo particolare momento il ricorso alla cassa integrazione di vario tipo produrrà senz'altro una ulteriore ondata di cambiamenti di posti di lavoro, ai quali andranno sommati tutta quella pletora di contratti "flessibili" trasformatisi in in precarietà ai quali se vogliamo far decollare il paese, occorrerà metter mano.
Detta meglio:  si dice che in una economia avanzata e liberale i rapporti di lavoro dipendenti e non dovrebbero cambiare almeno sette/otto volte nella vita lavorativa, a dimostrazione di una vivacità di rotazione e di cambiamento che annoierebbe meno i lavoratori e li dovrebbe far sentire più vivi e partecipi all'economia stessa.
Ma c'è un grande  "ma": per favorire una maggior vivacità nel cambiamento di occupazione, non possiamo non tener conto che l'eccessiva volatilità del posti di lavoro, portata all'esasperazione,  potrebbe produrre una pericolosa instabilità della struttura economica di un paese con riflessi sociali altrettanto preoccupanti.
Penso alle occupazioni dipendenti in particolare che sono dedicate alle funzioni sociali ed inalienabili di una collettività come l'istruzione, l'assistenza, la sicurezza, la sanità, il credito dove serve una preparazione ed aggiornamento costante e soprattutto una stabilità nei servizi offerti per mantenere una buona qualità nella loro erogazione.
Peraltro se pensiamo ad un insegnante, che vede cambiare fisiologicamente i suoi discenti ogni 3/5 anni, a seconda di che tipo di insegnamento offre, in realtà il tipo di attività rimane la stessa ma i fruitori, con i loro familiari, cambiano, numerose volte durante la sua vita lavorativa.
Si pensi che anche un bancario di una banca nazionale o europea, se vuol crescere professionalmente deve mettere in conto di cambiare incarico, filiale, città e regione, almeno 7/10 volte in 40 anni di lavoro.
Quel che più importa però è il fatto che se vogliamo perseguire una politica di fluidità nel cambiamento dei rapporti di lavoro, non possiamo assolutamente preoccuparci solo e soltanto di allestire validi sistemi di sostegno per i parzialmente o temporaneamente disoccupati, ma dobbiamo soprattutto trovare il modo di applicare il principio di re-ci-pro-ci-tà !
Intendo dire che se oggi si "accusano" i lavoratori dipendenti di puntare al posto fisso, tenendosi la libertà di decidere quando e se cambiare lavoro e si nega tale diritto analogo all'imprenditore, occorre che una volta rese le parti libere di agire (ovvero liberi di assumere o di licenziare e liberi di andarsene e di ritrovare facilmente lavoro) queste lo siano per davvero.
Inoltre appoggiarsi soltanto sul fatto che esistano nuovi e più moderni strumenti di tutela economica per i lavoratori licenziati, questo potrebbe costituire un costo insostenibile da parte dello Stato poichè non credo proprio che sia automatica la rotazione se non si rimuovono gli ostacoli posti strumentalmente.
Qual'è il motivo del posto fisso possibilmente a vita ?
La realtà dimostra che quasi sempre quando si viene investiti da un licenziamento individuale o collettivo questo evento è  a "perdere" cioè perdi un posto di lavoro, ma quasi sempre se ne ritrovi uno, la retribuzione è inferiore, mentre se cambi tu, di tua sponte, quasi sempre è "a guadagnare" per cui è questo il pericolo che ragionevolmente, molto ragionevolmente e credibilmente va rimosso.
Intanto per sgomberare il campo dalle varie problematiche penso che la questione sull'articolo 18/300 è un falso problema perchè riguarda i licenziamenti ingiustificati e riconducibili esclusivamente a decisioni illogiche perchè legate a motivazioni extra professionali (diversità politiche, religiose, di censo e di genere protette peraltro dalla Costituzione); ne consegue che non può essere questo il motivo per cui il nostro sistema economico e produttivo mostri il passo visto che questa legge è in vigore dal 1970 e non sono sufficienti le mutate condizioni del Mercati a giustificare l'abolizione di un rticolo "ideologico" (sappiamo perfettamente perchè è stato introdotto e le sue cause sappiamo bene che non sono per nulla morte e sepolte).
Pealtro non ce la vedo l'imprenditoria italiana con la sua vivacità e fantasia che si considera ostaggio di una legge (articolo) "capestro".
Occorre pertanto pensare a strumenti di controllo, oltre che contrattuali, tali per cui la libertà di scelta di cambiar lavoro o di licenziare non devono alterare assolutamnte i rapporti di forza fra le parti che devono essere sempre più equilibrati.
Abbiamo infatti assistito ad un comportamento indecente favorito dalle opportunità date da tutti quei contratti di lavoro flessibili che hanno portato alla precarietà che ora attanaglia il mondo del lavoro italiano.
Il fatto che l'imprenditoria indigena abbia a piene mani approfittato di posizioni di vantaggio con questa contrattualistica ci ha portato ad una attività economica di poca crescita se non stagnante ed a una fascia sembre più ampia di lavoratori precari a basso reddito; si è privilegiata infatti perchè più facile più l'innovazione di prodotto che di processo, ma questa è una azione perdente per chi vuol stare sul Mercato aperto perchè mondiale .
Che cosa non ha funzionato ? Non hanno funzionato i controlli per cui la sotto occupazione e l'occupazione parte in bianco e parte in nero,  producono l'insabilità economica, anche  del sistema imprese stesso che se non trova sbocco più di tanto sull'estero, si trova un mercato interno stagnante o di poca crescita.
Se di nuove regole si parla è evidente che il risultato non può essere che quello che alla velocità con cui si può perdere un posto di lavoro deve corrispondere altrettanta velocità nel trovarne uno nuovo.
In questi giorni abbiamo sentito che nei bliz della GF a Milano si son scoperti molti lavoratori irregolari e per di più senza permesso di soggiorno; ebbene i datori di lavoro se la caveranno con multe di vario tipo, ma l'andazzo continuerà in mille altri posti per cui il lavoro nero continuerà ben sapendo che questo produrrà anche evasione fiscale e contributiva, mentre i dipendenti perderanno il lavoro e verranno espulsi.
Proviamo invece a pensare ad una "punizione" diversa: introdurre l'obbligo di regolarizzazione del dipendente da parte del'imprenditore con la conseguente assunzione regolare e conferma del permesso di soggiorno.
Questi sono i nodi da sciolgliere ben sapendo che una collettività per essere veramente tale non può assolutamente poggiare su un mondo d libere professioni per tutti.
Peraltro lavoratori dipendenti ed imprenditoria fanno parte di uno stesso Stato e se questo chiede per comprovate motivazioni alla collettività di lavorare per più anni prima di andare in pensione, non possono esistere nel mondo del lavoro remore o riserve mentali per cui la velocità di cambiamento del posto di lavoro solleva eccezioni, o è inversamente proporzionale, come spesso vediamo accadere, all'età dell'assumendo, sul suo sesso, sul suo stato civile e quantaltro; se di merito e di professionalità si vuol parlare come elemento trainante di una economia, a qauesti principi si deve guardare, non ad altro.
Il lavoro quindi da fare è molto e riguarda anche e soprattutto un cambiamento radicale del mododi pensare il ruolo e il compito di lavoratori ed imprese.
Diversamente c'è il rischio che per necessità contigenti si facciano scelte "avvenierisiche" che non modifichino in reltà strutturalmente la struttura economica e produttiva dell'Italia, e ci presenti invece fra qualche anno un conto ancora più salato di quello che ci troviamo oggi in mano.