martedì, novembre 22, 2005

LIBERTA' E OLIGOPOLIO STRISCIANTE DEI CANALI MULTIMEDIALI

Il recente articolo“ Tv extra terrestre “ apparso sul numero 45/46 de L’Espresso illustra molto chiaramente le prospettive imminenti e prospettiche, nel breve periodo, che riguarderanno la trasmissione del segnale televisivo in Italia, grazie anche alla recenti Leggi Gasparri e Landolfi sulle telecomunicazioni.

E’ fuor di dubbio che la innovazione tecnologica anche in questo settore si deve e si dovrà sviluppare su spazi illimitati, ma quello che traspare nello sviluppo dei canali mediatici, per come è impostato, invece ha risvolti assai preoccupanti.

E’ buona regola rammentare che l’innovazione, in qualsiasi settore produttivo, ha lo scopo di amplificare i cosiddetti “ segnali deboli”, ovvero le aspettative latenti del un mercato di riferimento nel quale clienti e consumatori auspicano novità di cui hanno bisogno ma che non esistono sul mercato stesso.

Quando invece l’innovazione viene programmata per cercare di imporre un qualche prodotto o servizio che amplifica quelli esistenti, ma del quale clienti e consumatori non sentono assolutamente alcuna necessità, ecco che vi è il rischio assai fondato che possano essere limitate le volontà individuali a favore di un numero assai ristretto di imprese.

Per meglio spiegarsi evidenzio che quando la Rai decise di emettere il segnale di trasmissione anche per le tv a colori (con la lunga diatriba se utilizzare il segnale con il sistema Pal o Secam), la stessa continuò per qualche decennio a trasmettere anche il segnale in bianco e nero; il mercato e quindi i consumatori ebbero la piena libertà di scegliere e lo fecero con i loro tempi, sostituendo a poco a poco i vecchi tv con quelli a colori.

Altro esempio può essere costituito dalle carte di credito che all’inizio ,come status symbol, erano assai numerose nei portafogli degli italiani, ma ora che viene richiesta e data la multi funzionalità il loro numero nelle tasche di ogni italiano si è ridotto (manca solo l’introduzione del microchip che esiste invece dal oltre 10 anni sulle carte dei nostri vicini francesi).

Tornando al tema principale evidenzio che l’aspetto preoccupante è costituito dal fatto che è già in programma lo spegnimento del segnale analogico sostituendolo con quello digitale, obbligando quindi i consumatori a scelte che non hanno deciso in piena autonomia, pena l’oscuramento del tv stesso.

Il “segnale debole” – ci dicono – sarebbe costituito dalla aspettativa dei consumatori di avere a disposizione molti più canali di ora e a più alta definizione, mentre invece penso che si voglia creare un nuovo core business perché solo apparentemente questa trasformazione non comporterà spese aggiuntive per gli utenti ; infatti il decoder offerto con il contributo dello stato (che siamo poi tutti noi), funziona per un solo apparecchio tv mentre sappiamo tutti che ogni famiglia ha più di una televisione in casa.

Inoltre i canali così moltiplicati permetteranno una diffusione di programmi specializzati naturalmente a pagamento per cui il sistema pay per view verrebbe generalizzato anche sulla tv terrestre per cui verrebbe stravolto in modo subdolo e strisciante l’ attuale sistema nel quale il telespettatore decide che cosa vuol vedere su Rai e tv commerciali senza nulla pagare (a parte il canone per la tv di stato).

Altro aspetto preoccupante è costituito dal fatto che una volta generalizzato questo nuovo sistema vi sarà solo la “libertà” di scegliere quello che le emittenti hanno deciso di mettere in visione, su uno strumento che fa parte della vita quotidiana di ogni italiano.

Questa grande innovazione poi non tiene assolutamente conto che esistono altri canali di trasmissione, internet in primis, per cui se proprio si volesse preparare una “rivoluzione” del sistema di trasmissione mediatica, occorrerebbe sin da ora preparare il collegamento tra il segnale digitale e la trasmissione via internet, rispettando, nel modo più assoluto la libertà di “navigazione” gratuita, che consentirebbe ai telespettatori, con molta semplicità, di continuare a fare ciò che fanno tuttora o se lo desiderano (e ne hanno il tempo) di folleggiare su 200 canali e più.

Questa si , sarebbe una grande innovazione di business, che necessiterebbe di tempi assai lunghi ( nei quali i due tipi di segnale dovranno necessariamente coesistere) perché da un lato metterebbe a confronto le società televisive con le società di telecomunicazioni e dall’altro le società produttrici di decoder con quelle produttrici di tv.

Questo comporterebbe infatti un cambiamento degli strumenti tecnologici per quantità colossali (le famiglie italiane sono circa 16,5 milioni), dove effettivamente gli acquisti dei nuovi prodotti sarà direttamente collegato alle necessità attese e dove il meccanismo di mercato consentirà da un lato progressive economie di scala per i produttori e prezzi velocemente discendenti per i consumatori, ne più ne meno di quanto è accaduto nel mercato dei videoregistratori piuttosto che in quello dei telefonini o dei televisori tradizionali.

Per le società televisive quindi non cambierà nulla perché si sosterranno sempre più con canone e pubblicità, mentre quelle di telecomunicazione continueranno a sostenersi con il traffico di telecomunicazione che ovviamente crescerà ulteriormente.

Penso pertanto che il progetto di cambiamento vada prontamente rivisto sia ne metodo che nel merito, mettendo al primo posto il principio di libertà individuale e delle necessità attese di ogni cittadino ( il cittadino non vuole essere assolutamente costretto ad “attraversare la strada” ); così come impostato evidenzia in modo lampante che il progetto è ora fatto per i produttori di decoder, domani lo sarà per le compagnie di tlc, e dopo domani per i produttori di tv, mentre ai telespettatori non resterà che subire passivamente questa trasformazione.

mercoledì, novembre 16, 2005

Mercato del lavoro e sviluppo economico

Il Mercato del lavoro, negli ultimi 10 anni, ha avuto quattro grandi riforme che hanno decisamente impattato sull'andamento dello sviluppo del nostro paese, producendo vangaggi, ma anche grandi contraddizioni che hanno "remato" contro una crescita significativa del Pil, peraltro influenzato dall'andamento dell'economia mondiale e dall'emergere - c'era da aspettarselo - delle economie orientali ed asiatiche.

Le riforme in analisi si possono riassumere in due filoni:la prima quella pensionistica e previdenziale, la seconda quella dei contratti di lavoro per la prima occupazione.

Occorre premettere che il panorama del mondo del lavoro dipendente italiano può essere riassunto in un modello nel quale l'occupazione si è - ed è - contratta progressivamente trasformandosi in occupazione autonoma per effetto, principalmente, della trasformazione organizzativa delle grandi aziende e per la nascita di nuove imprese, anche di servizi innovativi.
A questo va aggiunto che la natalità (netta) si è negli ultimi vent'anni assotigliata sempre di più (fino alla crescita zero)e per contro la vita media si è e si sta progressivamente allungando.

Pertanto questi aspetti avrebbero imposto sia la modifica, con due leggi,delle soglie di età pensionabile, sia il criterio per la determinazione della pensione, al quale va aggiunto la legge Maroni, ancora allo studio, per la trasformazione del trattamento di fine rapporto in pensione aggiuntiva.
In un panorama economico con crescita, occorre dirlo con tutta sincerità, mediamente modesto, questa manovra ha di fatto ridotto - con progressività -le risorse future degli occupati e nel contempo ha lasciato trasparire il pericolo di precludere l'entrata delle nuove generazioni nel mondo del lavoro.

Da qui è sorta la conseguente necessità di introdurre principi di forte flessibilità, anche qui con due leggi (l'ultima la L.30 "Biagi"), per favorire gli accessi al primo impiego sia dipendente che autonomo e parasubordinato.
Purtroppo però è mancata una forte e continua politica economica (a prescidere dalle coalizione che si sono succedute), per cui il mondo delle imprese ha preferito favorire molto più l'efficenza (produttività)che l'efficacia (innovazione), più le innovazioni di processo che di prodotto e il mercato divenuto globalizzato ci sta ora presentando il conto.

La poco efficace politica economica ha poi permesso che emergessero due grandi contraddizioni: la prima è che lo Stato con i suoi nuovi istituti previdenziali chiede ai lavoratori di lavorare fino a 60/65 anni (anche perchè l'inizio dell'età lavorativa si è fortemente alzato), ma le inprese - anche attraverso nuovi ammortizzatori sociali - chiedono di smettere molto prima, a 50/55 anni.
La seconda è che le leggi di flessibilità, largamente applicate, dimostrano che spazi per la nuova occupazione ce ne sono tuttora, ma che si tratta in buona sostanza soltanto di diminuire il costo del lavoro rinunciando alla "specializzazione".
Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato viene visto molto spesso come il fumo negli occhi, anche se non pochi sono i casi in cui lavoratori vengono assunti e licenziati ogni 12 mesi dallo stesso datore di lavoro e per lo stesso ruolo, per anni fino a che, dopo un lustro, il "tempo di prova" viene finalmente trasformato in assunzione stabile.
Altri imprenditori invece non sono di questo avviso e pur non "tenendo le renne sotto casa", preferiscono se pur con cautela consolidare le proprie maestranze, perchè la volatilità di queste creerebbe forti problemi nello sviluppare il lavoro con la propria clientela.

Le imprese nel loro complesso quindi hanno preferito investire sulla produttività e sulla diminuzione di taluni costi, rinunciando - nel complesso - molto spesso alla ricerca di innovazione nella quale, il lavoro, non può essere considerata una variabile indicentale.
Si è verificato e si sta verificando in buona sostanza quello che è accaduto al nostro sistema scolastico (universitario in particolare) dove le menti "eccellenti" tendono ad emigrare all'estero, oppure si orientano più frequentemente verso discipline umanistiche; inoltre, quando ne abbiamo bisogno - come in parte del settore informatico - preferiamo delocalizzare in India o in Asia piuttosto che importare lavoratori altamente qualificati.
Anche questo fenomeno ricade sul mondo delle imprese italiane, come ricade senz'altro l'uscita anzitempo di lavoratori, molto spesso qualificati, destinati nella migliore delle ipotesi alla "libera professione" o a dedicarsi al tempo libero
Un fatto preoccupante che si potrebbe verificare fra non molto nel "mitico" nord-est sarà appunto la mancanza di ricambio nella forza lavoro poichè una intera generazione, attirata dalla facilità con cui si poteva trovar lavoro, ha smesso anzitempo di frequentare scuole superiori e università e da questa fascia minore sarà la quantità di eccellenze che potranno condurre le imprese nei prossimi anni.

Un tempo l' etica del lavoro era correlata alla capicità di saper fare e fu ridimensionata dall' introduzione dell'automazione soprattutto nella produzione industriale, ma ora che potremmo utilizzarla nei settori più innovativi preferiamo farne a meno, considerandola troppo impegnativa e preferendo semplicemente ricorrere a strumenti esterni come l'outsurcing che ci aiutano, ma non ci qualificano nè ci contraddistinguono.

Se vi fosse stata una vigorosa politica economica invece, avremmo avuto certamente indirizzi più chiari delle linee su cui sviluppare l'economia, l'indicazione dei settori produttivi e di servizi nei quali è sufficiente il mantenimento e il sostegno ai settori nei quali vale la pena investire in modo significativo, utilizzando per questo cambiamento sia le esperienze e le qualificazioni dei dipendenti anziani, sia la vitalità e le specializzazioni dei nuovi occupati.
Un esempio per tutti: siamo la prima potenza agricola d'Europa, ma i nostri agrocoltori hanno i margini di redditività più bassi dell'Europa stessa, mentre il Regno Unito ha fatto una scelta coraggiosa abbandonando il settore meccanico (che non è comunque sparito) a favore dei servizi anche finanziari.

Per la verità l'iniziativa imprenditoriale e le regole di mercato aperto hanno comunque fatto sorgere iniziative nuove ed innovative,penso alle telecomunicazioni per esempio, peccato che questo settore si stia progressivamente riducendo poichè già due compagnie sono finite in mani straniere.
Qui non si tratta ovviamente di fare del nazionalismo ne del dirigismo, ma se per esempio scegliamo, come abbiamo scelto, di ridurre la produzione interna di calzature, o di abiti, dobbiamo orientarci a produzioni di beni o servizi piu qualificati ed innovativi e non delocalizzare semplicemente, facendo ricadere sullo stato sociale gli oneri di una occupazione che cresce moderatamente e su basi assai fragili (Germania docet).
Ne consegue che i processi produttivi sempre più automatizzati non necessitano di maestranze altamente qualificate; ne emerge anche l'alta interscambiabilità dei nuovi occupati, buoni più per un call center, che per sviluppare nuovi prodotti o servizi.

Ancora sulla mancata vigorosa politica economica: per diminuire lo stock del debito pubblico si son fatte grandi privatizzazioni, pensando che mercato e concorrenza avrebbero prodotto automaticamente efficenza, concorrenza con la diminuzione dei prezzi, ma è mancata la liberalizzazione dei settori protetti per cui ad un monopolio pubblico si è sostituito un monopolio privato, ma di concorrenza se ne è vista ben poca e di diminuzione dei prezzi ancora meno.

Si ha quindi sempre più la sensazione che la scarsa politica economica sia frutto di un grande compromesso: da un lato si predica il libero mercato, la libera iniziativa, la concorrenza che produrrebbero maggior qualità, quantità ed economicità di beni e servizi, ma d'altra si teme di fare il passo più lungo della gamba non attuando completamente il cambiamento.
Abbiasmo visto che grande cambiamento è e stà avvenendo nel mondo del lavoro dipendente e non (con indubbi sacrifici impliciti), ma sul fronte delle imprese, nel loro complesso, nascono i distinguo, nascono i ma o i se, con risultati certamente non soddisfacenti.
Il male della nostra struttura economica sta proprio qui: abbiamo una paura folle di abbandonare il modello del boom economico quando eravamo "i cinesi" d'Europa e non ci accorgiamo che i cinesi sono già arrivati.

sabato, novembre 12, 2005

Le esternazioni del Cav. Berlusconi

Certamente il Presidente Berlusconi non finirà mai di stupirci con i suoi interventi "mirati" che giornalmente ci proprina, tutti volti a creare audience, ma soprattutto volti a recuperare consensi che gli sono necessari per cercare di rivincere le prossime elezioni politiche.

L'ultima, sentita ieri in un breve resoconto al tg ( a causa dello sciopero in corso) riguarda le sue considerazioni sul nazismo del tutto simile al comunismo, per poi giungere rapidamente all'Italia che rischia di essere governata da ex-post-comunisti, no comprendendo che simili suoi
interventi gli risulteranno certamente controproducenti.

La strumentalità è evidente perchè l'analisi di questi eventi politici e storici è obbiettivamente assai conplessa e le responsabilità, senza voler cercare di attenuarle, sono altrettanto complesse ed articolate per cui giungere a rapide conclusioni sulla attualità politica italiana, risulta
assai azzardato.

Molto rapidamente, riguardo al panorama storico rilevato dal Predisente del Consiglio, credo occorra sottolineare che la nascita del comunismo, del nazismo dapprima e della turbolenza medio orientale poi sono frutto della prima guerra mondiale con la quale le potenze illuminate di Francia ed Regno Unito (gli Stati Uniti non erano ancora la grande forza politica raggiunta
con la seconda guerra mondiale sino ad oggi)intendevano "liquidare" tre grandi imperi che stavano sempre più avvitandosi su posizioni anacronistiche:l' Impero Austroungarico, Quello Russo e quello Ottomano (un caso a parte è l'Italia che pur vincendo la guerra, i danni e la
disgregazione conseguente portarono alla nascita del fascismo).

Ancora una volta abbiamo la riprova che le guerre non servono a migliorare la società, ma caso mai a fare semplicemente soldi; infatti il risultato è stato che si son sostituite a strutture imperialiste strutture totalitarie (sin dall'inizio o successivamente), mentre nella penisola arabica la spartizione tra Francia e Inghilterra ha creato il bel "papocchio" della Palestina con la creazione nel 1948 dello stato di Israele, ma non quello di Palestina.
Questo non vuol certo dire che le grandi potenze di allora siano responsabili delle abberrazioni dei totalitarismi, ma certamente la loro azione non ha nemmeno ipotizzato che queste potessero nascere e men che meno hanno tentato o contribuito ad evitare che queste sorgessero.
La realpolitik del momento ha invece creato accordi, alleanze sfociate anche in trattati, ma ben si guardarono di contestare alcunchè preferendo voltarsi dall'altra parte.
Le responsabilità implicite del nazismo, fascismo e comunismo Urss, sono comunque integre e la storia ha già dimostrato la loro indubbia negatività.

Anche la seconda guerra mondiale ha continuato nell'obiettivo di smantellare il terzo Reich e di ridimensionare fortemente le velleità dell'impero del sol levante, ma le alleanze tenute con l'Urss si son ben guardate dal prendere in considerazione non tanto la politica sviluppata da quest'ultima, quanto le abberrazioni sviluppatesi al suo interno.

Per precisione di cronaca è bene rammentare che le differenze ideologiche tra nazifascismo e comunismo sono sempre state evidenti: il primo basato sulla superiorità razziale ha visto fallire il suo modello sociale mentre il secondo basato sul collettivismo ha visto fallire il modello economico (dove il gulag ereditato dagli zar - è stato inequivocabilmente una riprovevole aberrazione, ma non un elemento del modello economico stesso).

E bene ancora rammentare che la rivoluzione sovietica ha contribuito a smantellare un impero nel quale sostanzialmente non esisteva una borghesia indoddisfatta come in quella francese,per cui lo smantellamento di uno stato feudale, non poteva che essere sostituito da un modello
collettivistico.

Il fatto drammatico è stato che questo modello è stato perpetrato continuamente facendo emergere sia contraddizioni, sia storture e drammi che hanno fortemente influenzato le categorie sociali dell' Urss stessa.

Dopo la seconda guerra mondiale la nascita dei due blocchi voluta - è bene esser chiari- da tutti ha consentito che le abberrazioni in Urss continuassero e si acuissero ulteriormente, ma anche qui, quando si costituiscono i bilateralismi, si può contribuire a creare situazioni antidemocratiche soprattutto nelle società o negli stati in formazione (la riprova la riscontriamo negli stati africani o arabi liberatisi dal colonialismo dove le democrazie stentano ad emergere ancora oggi a
distanza di parecchi decenni).

Quanto sopra esposto credo dimostri quanto complessa ed articolata sia l'analisi in particolare del comunismo e quanto molto occorra aggiungere per completare e giudicare il comunismo (in questa breve analisi solo sovietico).

Passando al movimento comunista italiano poi l'analisi è certamente articolata anche se non così complessa; certo è che il movimento si è evoluto passando dal collateralismo con l'Urss, attraverso anche drammatiche scissioni, sino ai giorni nostri dove il principale partito, il Pci, è ormai sepolto da oltre 10 anni.
Peraltro occorre dire che anche altri partiti come Rifondazione e Comunisti italiani, pur rimanendo collegati agli ideali storici del comunismo, si sono decisamente ed inequivocabilmente evoluti per cui certi principi sono stati anch'essi decisamente accantonati per il loro anacronismo.

Da parte di Berlusconi pertanto appare decisamente curioso ed azzardato cercare di terrorizzare l'opinione pubblica e l'elettorato auspicando il pericolo di momenti bui per la democrazia italiana, qualora il centro sinistra (ed i "comunisti" al suo interno) vincesse le elezioni politiche
nel 2006, per il semplice motivo che tutto ciò è antistorico: in primo luogo perchè il movimento comunista - con il Pci - in Italia ha contribuito alla crescita della Repubblica italiana sin dalla sua nascita e poi perchè le amministrazioni sia locali che nazionali (da ultima quella costituita dai Governi Prodi-D'Alema-Amato)di centro sinistra, pur con i loro errori, non hanno patrocinato la povertà, il collettivismo o il centralismo democratico, ma hanno contribuito alla scescita economica e sociale del paese (che potessero far meglio è fuor di dubbio, ma che abbiano invece
portato allo sfascio il paese questo non è per nulla vero).
La riprova: non mi sembra che le regioni del centro Italia siano in stato di degrado e le popolazioni residenti siano con le toppe al sedere (alcune sono amministrate sin dal dopoguerra da amministrazioni di sinistra), nè mi risulta che il Cav. Berlusconi non sia riuscito ad emergere come imprenditore sino a costruire il grande impero di cui gli va dato merito.
La smetta quindi di usare toni populistici e dica chiaramente, senza furbizie, qual'è il modello economico e sociale che vuole proporre agli italiani per la crescita del paese: vuole proporre il liberismo alla Tatcher lo faccia e lo applichi se gli italiani lo asseconderanno; se vicerà invece il centro sinistra con il suo modello riformista, faccia costruttivamente l'oppositore evitando di seminar zizzania ad ogni piè sospinto per il bene suo e degli italiani.