lunedì, aprile 02, 2007

Telecom Italia

Si è manifestato in questi giorni l'interesse da parte di compagnie telefoniche americane ad acquisire il 66% del controllo della società che detiene il 18% di Telecom e Tim Italia e stanno sorgendo forti perplessità da parte del Governo in carica in quanto questa operazione porterebbe il controllo della principale compagnia telefonica mobile e fissa fuori dei nostri confini, ma soprattutto questo interesserebbe anche i principali assets, fra cui la rete telefonica.
La preoccupazione è, penso, proprio fondata in quanto, se questa operazione andasse in porto,
sarebbe come vendere una società autostradale ed insieme a questa anche la proprietà anche della rete stradale.
Certamente a suo tempo la privatizzazione di Telecom avvenne in modo assai affrettato per la necessità di ridurre velocemente il debito dello stato e poter quindi rientrare nei parametri necessari per l'entrata nell'euro; il collocamento avvenne in una unica soluzione (a differenza di altre società come Eni ed Enel che avvennero in più tranches) e si venne a creare soltanto "un nocciolino" di comando della società privatizzata.
La disponibilità della rete da parte degli altri operatori telefonici emergenti venne sancita dalla regola "dell'ultimo" miglio, per cui la fruizione degli impianti fu garantita alle società concorrenti presenti e future.
Successivamente avvenne il doppio passaggio del controllo della compagnia prima con l'acquisizione da parte di Olivetti cappeggiata da Colaninno e poi con l'acquisizione da parte di Olimpia cappeggiata da Tronchetti Provera e Benetton.
Il modo in cui questi passaggi di controllo avvennero sono, a mio modo di vedere, la causa che hanno portato nelle secche la compagnia e la conseguente scelta di passare la mano.
Infatti contrariamente alle migliaia di investitori italiani che misero mano al portafoglio, i pacchetti di controllo si appoggiarono quasi esclusivamente su provvista a debito (credito bancario ) contando sul fatto che la redditività della Telecom avrebbe consentito rapidamente la remissione del debito.
Nei vari passaggi però il pacchetto di controllo crebbe in maniera consistente ed altrettando consistente aumentò la provvista a debito che fu poi trasferita in Telecom con una serie di fusioni/incorporazioni.
Questa fu il primo passo che portò alla repressione dei valori di borsa della società, calo che è gravato indistintamente sia sul 18% di controllo che sul restante flottante in mano agli investitori che aveva acquistato con denari propri.
La realtà attuale è che nonostante la liquidazione di assets (più o meno) non strategici il debito in Telecom è pari al fatturato (si parla di oltre 30 miliardi di euro) e la redditività della azienda
non può essere destinata, tutta, alla remissione del debito, ma deve remunerare pure gli azionisti compresi (soprattutto) quelli che controllano il 18% che hanno la necessità, quantomeno, di coprire le perdite derivanti dal diminuito valore di carico del pacchetto di controllo stesso (per effetto del calo sensibile del corso del titoli in borsa).
Il peccato originale sta proprio qui: l'operazione di acquisizione di Telecom è stata attuata esclusivamente con mezzi di terzi , il debito conseguente è stato fatto gravare sulla società stessa, si sono così ridotte le capacità dell'azienda di finanziare ulteriori investimenti ed ora si prospetta , qualora il passaggio di quote Olimpia andasse in porto, una continuità nella fragilità della struttura patrimoniale della società; non penso infatti che sia interesse della nuova, eventuale, proprietà immettere ancora mezzi propri per riequilibrare la fragilità strutturale.
Un particolare interesse potrebbe essere costituito dalla possibilità di Telecom di entrare massicciamente nel settore della trasmissione televisiva, ma, accanto alle indubbie possibilità tecniche, l'incertezza normativa esistente in Italia permane ormai da tempo ed i veti incrociati sul progetto di Legge Gentiloni, non sembrano certo aprire a nuovi players che potrebbero operare nella tv via cavo Tantomeno se ne interesso la precedente Legge Gasparri).
La dimostrazione di ciò può essere anche ricondotta allo "scandalo" Rovati dell'estate scorsa; ha poca importanza sapere se il Governo sapesse o meno, stà il fatto che il progetto Rovati non era poi così peregrino: da un lato la Cassa Depositi e Prestiti acquisiva la rete telefonica (cavi, ripetirori, centrali, ecc) e dall' altra Telecom avrebbe avuto buone risorse sia per ridurre il debito sia per nuovi investimenti nella telefonia mobile e fissa ed anche nel settore televisivo.
Questo da un lato avrebbe diminuito il potere dell'attuale gruppo di controllo e dall'altro si sarebbe creato un vero e proprio terremoto politico poichè con la contenuta maggioranza di questo Governo, l'opposizione sarebbe insorta strappandosi le vesti.
Bah, tutti buoni a predicare concorrenza e competizione, ma quando queste ci toccano da vicino ecco che i distinguo si sprecano.
Stremo a vedere

domenica, aprile 01, 2007

Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare

La Legge Maroni, la cui attuazione è stata anticipata dal Governo Prodi che ha aumentato il numero dei gestori inserendo la più grande assicurazione nel comparto pensionistico costituita dall' Inps, consente oggi ai lavoratori dipendenti di scegliere dove destinare, in alternativa al passato, il salario differito; non solo e soltanto quindi verso il Tfr gestito dalle imprese, ma anche ad altri gestori (banche, Assicurazioni, Inps, ecc).
Il Governo in carica ha pure in progetto, egregio, di procedere all'accorpamento di tutti gli istituti previdenziali (esclusa per il momento l'Inail) che consentiranno, pur mantenendo gestioni separate, la costituzione di un SuperInps, con economie di scala che consentiranno risparmi di spesea in circa 2 miliardi di euro l'anno.
I risparmi, che non sono poca cosa, deriveranno da un migliore utilizzo delle risorse operative e dai risparmi derivanti dalla fusione delle rappresentanze territoriali.
Il Tfr è forse il più antico istituto contrattuale obbligatorio che, in origine, aveva lo scopo di costituire risorse per i lavoratori che non fossero più in grado di lavorare, affiancato successivamente dal sistema pensionistico che sino al 1993 era basato sul sistema retributivo (principio di sussidiarietà) e successivamente sul sistema contributivo.
Gli strumenti legislativi che regolano il diverso modo di gestire il tfr è regolato sia dalla L. 124/93 che dalla successiva 252/05 che si affiancano alle regole che continuano a regolare il Tfr, più precisamente indicate dall' Istat (nell'attualità il 75% dell'incremento dell'indice dell'andamento dei prezzi al consumo per le famiglie maggiorato di 1,5 punti %).
La formula che regola e regolerà il tfr (tasso istantaneo ad oggi ",625%) gestito dalle aziende è una soluzione squisitamente matematica (regola che verrà applicata anche ai tfr, dei dipendenti delle aziende con più di 50 dipendenti, inoptanti che coinfluiranno in Inps) che in regime di tassi relativamente bassi come l'attuale consentono una rivalutazione degli accantonamenti sostanzialmente analoga, appunto ai tassi correnti; nel caso in cui si dovessero presentare situazioni nelle quali i tassi raggiungono livelli ben superiori (come avvenuto sino alla seconda metà degli anni 90) ecco che il tasso di rivalutazione si potrebbe discostare sensibilmente dai tassi correnti (per tassi correnti mi riferisco ai rendimenti dei titoli di stato).
Sul fronte delle imprese il Tfr costituisce una fonte finanziaria per la loro attività che al momento attuale non si discosta molto dai tassi correnti, mentre nel passato la provvista finanziaria derivante dal tfr consentiva risparmi significativi rispetto ai tassi di mercato correnti.
Le leggi succitate hanno lo scopo di costentire una diversa gestione degli accantonamenti di tfr e nel caso in cui vengano scelti fondi di negoziali di categoria, o altri fondi pensione, vi è la possibilità di trasformare, alla pensione, i montante accantonato in pensione integrativa in quanto la liquidazione di tali risorse individuali è limitata, se richiesta, al 50% dei versamenti rivalutati.
Questi nuovi strumenti legislativi hanno quindi un duplice scopo: il primo di dare una maggior dinamicità ai criteri di gestione delle risorse accantonate dai lavoratori dipendenti qualora decidessero di non lasciare in gestione(con la formula matematica indicata in premessa) alle rispettive aziende il tfr e l'altro di creare delle risorse che in tutto o in parte vengano utilizzate sottoforma di pensione integrativa, aspetto non secondario in presenza di un sistema pensionistico a base contributiva ( soggetto anche alla revisione decennale dei coefficenti di trasformazione, correlati agli indici di mortalità ).
Quel che mi lascia un po perplesso però è il tipo di risultati che ci si potrebbero e dovrebbero attendere dalle gestioni "alternative"; a prescindere dalla linea di investimento che il lavoratore intenderebbe scegliere all'interno del fondo pensione, sarebbe logico attendersi rendimenti migliori della formuletta che l'Istat fa applicare sui tfr versati nelle rispettive aziende.
Da una prima indagine non sembra sia proprio così: esaminando il rendiconto 2006 di uno dei più vecchi fondi di categoria, si può riscontrare che solo la linea di investimento più "vivace" consegue risultati decisamente significativi (oltre il 4%) mentre per le altre siamo al livello del tasso Istat o addirittura a meno della metà; inoltre i rendimenti sono tutti inferiori ai rispettivi benchmarck di riferimento (ovvero la media dei rendimenti dei comparti, con analogo livello di dischio, tutti i fondi ).
La legge regola adeguatamente il comportamento dei gestori e delle strutture di controllo ed occorre tener presente che l'operato del fondo ( tramite i gestori) deve essere animato anche da principi di assoluta prudenza e che i devono essere progettati sul lungo periodo, ma occorre però dire che è del tutto lecito confrontare il rendimento del fondo in un dato periodo con la media dei tassi correnti nel periodo stesso ed attendersi risulatati più che analoghi.
Nella realtà, come detto, così non sembrerebbe, nemmeno nelle linee di investimento più aggressive ( a maggioranza azionaria) se si tiene conto che il rendimento è soltanto un quinto della crescita dell'indice di borsa italiano (mitel).
Se lo scopo quindi è stato quello di ricercare strumenti per migliorare il rendimento dei tfr occorrerà senz'altro che vi sia una revisione critica delle azioni poste in essere nel passato da parte dei fondi (e dei gestori) esistenti ed un analoga programmazione da parte di quelli nascenti perchè i lavoratori dipendenti al momento della pensione si attendono risultati sulla rivalutazione dei loro accantonamenti perolomeno analoga a quella che avrebbero conseguito se avessero gestito queste risorse in semplici titoli di stato a medio termine.
In questo ambito andrebbe pure riconsiderato il peso delle spese di gestione (che per il tfr non esistino) in quanto ci troviamo di fronte a masse consistenti di risorse il cui costo di gestione non può, se non entro certi limiti, essere percentualizzato (non possiamo tenere sullo stesso piano la commissione di gestione di un investimento da 10 mila euro e quella di un milione di euro).
Mi rendo conto di aver toccato tasti assai delicati, ma il tema è assai scottante e penso sia utile, sin da ora, approcciarsi in modo appropriato alla gestione (e ai risultati) per non trovarsi in un futuro prossimo in situazioni difficilmente sostenibili e giustificabili.
Del resto occorre tener conto che il flusso da gestire è decisamente importante (considerate che la produzione annua di nuovo tfr è circa 19 milardi di euro) e i clienti (lavoratori dipendenti) hanno tutto il diritto, pur riconoscendo il ruolo dei gestori, di pretendere la fetta maggioritaria dei risultati (rivalutazioni) attesi.