venerdì, gennaio 27, 2006

Palestina: una storia infinita

Le recenti elezioni in Palestina hanno innaizitutto sconvolto l'assetto politico di questo paese e conseguentemente vanno ripensati i rapporti politici con questo stato e Israele, aituati dalle politiche estere, in primo luogo di Europa e Stati Uniti.
Il radicalismo palestinese per decenni ha impedito una adeguata organizzazione politica e sociale dello stato, mentre Israele ha ripreso una politica di difesa, iniziata con la "guerra dei sei giorni" nel '67, dalle intenzioni bellicose di tutto il mondo arabo.
Occorre aggiungere che all'interno del mondo arabo ed islamico, il popolo palestinese, non è mai stato visto di buon occhio, per la sua "superiorità" intellettuale, sociale e politica per cui si è trovato incastrato tra le esigenze di difesa dei confini da parte di Israele, di definire i territori per un proprio stato da parte dei Palestinesi e di ampliamento dei propri territori da parte degli stati arabi confinanti, desiderosi di avere maggior accesso al Mediterraneo.
Al Fatah e Yasser Arafat hanno sviluppato una politica, ma anche una azione militare e terroristica,trasformatesi poi in una lunga marcia di normalizzazione a partire dal 1993 con gli Accordi di Camp David.
Da un lato quindi la ricerca di stabilità interna in Palestina e dall'altro la ricerca di accordi con Israele hanno prodotto una serie di accordi non ultimo quello sulla striscia di Gaza e quello per le votazioni dei palestinesi a Gerusalemme, ma l'opionione pubblica non ha conosciuto i reali mutamenti che nel frattempo si stavano creando all'interno della comunità palestinese, e le politiche internazionali si son ben guardate dall'ipotizzare i nuovi scenari che sono apparsi prepotentemente in questi giorni.
Non si è percepito per nulla il motivo per cui in Palestina sia sorto e sviluppato un movimento, apparentemente radicale verso Israele come Hamas, ma nella realtà antagonista anche verso Al Fatah; non si son capite le radicalità sviluppate da Sharon, contro la politica di Arafat; non si son capite le ragioni che hanno portato Sharon a formare una realtà politica di centro sviluppatasi in pochi giorni.
L' opinione pubblica, per nulla aiutata dai plenipotenziari internazionali, ha spesso percepito queste azioni come de fossero esercizi di "machiavellismo" medio orientale, mentre ora, a cose fatte, la situazione appare molto più logica e chiara.
La realtà, in Palestina era che per troppo tempo Al fatah aveva assunto una posizione dominante senza, in forza di questo, cercare di dare un ordinamento efficente allo stato e solo recentemente
sono apparse le prime regole concrete con le elezioni del 2004, ma se ben ricordate gli esponenti di governo palesinesi andavano spesso in rotta di collisione con il principale esponente di Al Fatah.
In questo ambito lo spazio politico e sopattutto sociale che Arafat perdeva nella comunità veniva
occupato progressivamente da Hamas, percepito nella comunità internazionale soltanto come terrorista anti istraeliano.
Nel frattempo Sharon aveva scelto la politica di isolare e ridimensionare fortemente il ruolo di Arafat, assumendo posizioni assai decise, anche militarmente, per sancire che lo stesso Arafat era l'ostacolo per accordi di pace duraturi tra Israele e l' Olp Palestina.
Con la morte di Yasser Arafat, Sharon ha effettivamente dimostrato, con la sua politica, che lo "scoglio" era superato e la fase di normalizzazione è aumentata anche con la chiusura delle colonie israeliane nella striscia di Gaza e l'apertura di alcuni confini.
Inoltre l'operazione compiuta da Sharon di costituire per le prossime elezioni di marzo un nuovo soggetto politico di centro poteva fino a pochi giorni or sono apparire soltanto una evoluzione politica per creare uno strumento più utile al confronto politico interno.
Vi è invece ora il forte convincimento che Sharon avesse previsto per tempo il cambiamento politico all'interno della comunità palestinese e che occorresse quindi uno nuovo strumento per contrastarla e con cui confrontarsi.
Purtroppo la morte di Arafat non ha alla lunga aiutato Israele, ma ha dato spazio ad Hamas e la grave malattia di Sharon ci impedisce di sapere quale sarebbe il sul atteggiamento sulla nuova maggioranza assoluta raggiunta da Hamas in Olp Palestina.
La realtà dei fatti è comunque che in Olp Palestina il partito di governo dei prossimi anni sarà quello di Hamas e piaccia o no, con questo si dovrà confrontare Israele e la comunità internazionale.
Certamente la nuova situazione creatasi è assai complessa e quindi preoccupante perchè è sorto un nuovo oggetto politico e non è ben chiaro come con questo si possa trattare; ma è altrettanto vero che è apparsa una nuova connotazione, accanto a quella terroristica, di partito parlamentare, che tutti auspichiamo debba prevalere.
Le chiusure generalizzate apparse di primo acchito da parte di Israele e di Olp, ma anche di Europa e Stati Uniti sembrano quindi poco realistiche e più emozionali, proprio perchè non è pensabile che questi non avessero previsto anche questa novità, nè si possono sottrarre al confronto disconoscendo l'avversario politico.
Lo stesso Presidente Bush ha oggi affermato "" non si può esportare la democrazia e poi lamentarsi dei risultati della democrazia"": ciò sta a significare che una soluzione alla ripresa dei rapporti destinati alla pacificazione dell'area medio orientale vada comunque ricercata.
D'altro canto se lo scopo dichiarato di Hamas era quello di contrastrare, con il terrorismo, Israele, ora che è forza di governo potrà cercare di modificare accordi esistenti, ma non potrà continuare su una strada che troverebbe oppositori anche all'interno della comunità palestinese.
Non è pensabile infatti che la comunità palestinese abbia dato mandato, con il voto, per sostituire l'azione terroristica con quella parlamentare: la maggioranza ha scelto nuovi uomini in primo luogo per meglio governare lo stato poi per ridefinire i rapporti internazionali fra i quali c'è certamente Israele, ma anche Stati Uniti ed Europa.
Grande è quindi il ruolo di questi due ultimi perchè grandi sono i rapporti fra questi ed i due principali stati contendenti; in particolare l'Europa da sempre vicina ad Israele, ma, con forti aiuti economici, anche con Olp.

lunedì, gennaio 23, 2006

A proposito di conflitto di interessi

Da almeno 12 anni si sente parlare su tutti gli organi di stampa (su carta o televisiva) e negli incontri politici, di conflitto di interessi che esisterebbe per alcuni uomini politici italiani e, più recentemente, per uno dei principali partiti, ovvero i Democratici di sinistra.
Tale conflitto è indicato, per le società di capitale, dal codice civile e sono ben delineati i comportamenti da tenere da parte degli amministratori indicando pure le sanzioni, nel caso in cui questi comportamenti vengano disattesi.
In buona sostanza è fatto obbligo all'amministratore, nel caso di una o più specifiche iniziative, di informare preventivamente gli organi di governo della società del conflitto appunto esistente fra l'azione della società e l'amministratore (compresi i terzi a lui riconducibili).
In caso di decisioni prese, l'amministratore in conflitto, deve astenersi.
Nel caso in cui tutto ciò non avvenisse, gli eventuali danni che dovesse patire la società, sono direttamente imputabili all'ammistratore con apposita iniziativa legale.
Questa disciplina è stata introdotta anche, con apposita legge, dalla amministrazione dello stato in relazione, soprattutto, alla predisposizione e promulgazione di delle leggi e similari che regolano il funzionamento dello stato e della società.
La legge esistente certamente affronta questa disciplina, ma non attua tutti quei principi di comportamento che evitino nel modo più ampio, che tale conflitto possa sussistere.
Nelle democrazie liberali anglosassoni infatti, dove questo conflitto si potrebbe manifestare con più frequenza e da molto più tempo che in Italia, si è individuato uno strumento, obbligatorio, che regoli tale disciplina, strumento che in modo del tutto volontario è stato attuato dal nuovo Governatore della Banca d'Italia, Dr. Mario Draghi.
Il Governatore ha infatti liquidato tutte le risorse personali che potessero essere in conflitto con la sua nuova funzione, risorse che sono state assegnate ad un gestore, senza resa dei conti per il mandante.
Lo stesso sindaco di New York, Bloomberg, ha fatto altrettanto.
In Italia, al contrario, tale azione non è stata assolutamente così drastica e quindi, molti sono i casi i cui questa netta separazione fra interessi personali e scelte politiche di diversi uomini politici non c'è stata.
La conseguenza è che questo conflitto continua a permanere latente e di tanto in tanto riappare avvelenando la vita politica e sociale del paese.
Una scelta di tipo anglosassone, certamente, sembrerebbe assai eccessiva per il cittadino che intendesse scendere in politica in quanto vedrebbe liquidare le proprie risorse affidandole in amministrazione a terzi, rinunciando (magari solo per una o due legislature) quindi ad interessarsi al patrimonio che ha creato e che gli appartiene, ma è fuori di dubbio che amministrare la res pubblica, significa anche creare una separazione tra fatti personali e quelli pubblici, soggiacendo pertanto soltanto al giudizio politico dell' elettorato.
Ne consegue che è interesse anche dell'amministratore eliminare qualsiasi collegamento o frammistione per poter essere apprezzato o meno sul suo operato.
Altra cosa è il conflitto di interessi che riguarderebbe invece un partito che oggi è sarebbe costituito dai Democratici di Sinistra.
Innanzitutto qualsiasi partito riassume interessi economici, sociali ed ideali di una fetta, più o meno ampia, della collettività per cui le azioni volte a cercare di tutelarli sono un dovere non certo una interessenza.
Fra l'altro il sistema di formazione e promulgazione delle leggi, a qualsiasi livello (regionale, comunale, privinciale o nazionale) necessariamente coinvolge e si intreccia con i contributi degli altri partiti esistenti per cui i risultati si riverberano su tutta la collettività, in quanto funzionali ad essa.
Inoltre la caratteristica dei partiti attuali non è più nemmeno interclassista bensì d'opinione per cui legiferare per una categoria o una lobby risulta assai difficile, se non impossibile.
Se il conflitto di interessi esistesse davvero credo che lo si potrebbe imputare, ancor di più, alle organizzazioni sindacali, che tutelano contrattualmente una specifica categoria di lavoratori dipendenti, o dipendenti di una singola azienda; ma ovviamente così non è perchè non vi è frammistione tra le azione sindacale e risultato, in quanto questo va ai dipendenti in modo indistinto (iscritti e non iscritti).
Guardare al passato poi può essere un buon esercizio di storia, ma trasporlo ai giorni nostri risulta operazione assai azzardata: al tempo dei "blocchi" i finanziamenti esterni ed interni esistevano, ci piaccia o no, per tutti gli schieramenti politici (dalla Dc al Pci) ed il malaffare che ne può essere scaturito è emerso ed ha portato al collasso della struttura politica di quel tempo.
Oggi accusare i Ds di conflitto d'interesse appare francamente un esercizio assai forzato: non esiste diretta correlazione o interesse tra l'azione di questo partito ed i risultati che questo può aver incamerato; del resto questo non avviene nemmeno in tutti gli altri partiti che contribuiscono alla ammistrazione del paese, ma non traggono alcun vantaggio diretto, se non quello del loro riconosimento politico.
Qualora invece si riscontrasse che ciò non è avvenuto perchè un partito o suoi esponenti hanno beneficiato del risultato della loro azione, allora in questo caso ci troveremmo di fronte ad alri reati (come il finanziamento illecito, la malversazione, ecc), ma non certo difronte ad un conflitto di interessi.

sabato, gennaio 21, 2006

Le cooperative in economia di mercato

I recenti scandali apparsi sulla scena nazionale hanno in particolare messo sotto la lente di ingrandimento il fenomeno economico costituito dal mondo delle cooperative.
Occorre precisare che il movimento cooperativo è sorto a metà dell' ottocento quale modello di aggregazione mutualistica tra lavoratori dello stesso settore in un mercato assai contenuto rispetto a quello attuale.
L'Italia a quel tempo (e sino alla fine della seconda guerra modiale) era un paese prevalentemente agricolo e l'industria cominciava a svilupparsi soltanto nei settori fondamentali della produzione (tessile, siderurgico, meccanico, edile).
L'agricoltura era costituita sostanzialmente dal grande latifondismo e le maestranze erano organizzate, spesso, in cooperative per la lavorazione dei terreni agricoli; il settore industriale era prevalentemente costituito da industrie private, evoluzione delle iniziative della grande proprietà terriera.
Sin dalle origini vi è stata una diretta correlazione tra i lavoratori che operavano nei vari settori e le aggregazioni politiche che cominciavano a nascere e a formarsi in quel periodo con l'innesto della borghesia che elaborava modelli politici alternativi o integrativi del modello prevalente costituito da nobiltà e regno.
Il fenomeno cooperativo quindi sin dagli albori, in forza della mutualità che aggregava categorie di lavoratori o di mestieri, era uno dei soggetti del modello economico vigente.
Conseguentemente l'evoluzione susseguitasi, nel tempo, dei vari modelli economici ha visto evolversi, in stretta correlazione, tutte le componenti dei modelli stessi: la nascita della grande industria, ma anche quella media piccola, lo sviluppo dell'artigianato, la crescita dell'occupazione dipendente in tutti i settori produttivi ed al suo interno quindi anche quella particolare in forma cooperativa.
Oggi che operiamo in un mercato aperto e globalizzato tutti i soggetti conomici che compongono il mercato si sono evoluti, compreso il movimento cooperativo che risponde sia ad egigenze di aggregazione fra i cooperatori, sia ad esigenze e richieste del mercato stesso; conseguentemente non vi è stata una mutazione di questo fenomeno, bensì un adattamento al nuovo modello economico per meglio rispondere alle esigenze della domanda e dell'offerta.
Certamente oltre 150 anni or sono i settori in cui operava la cooperazione erano ben pochi, perchè pochi erano i settori produttivi esistenti, ma ora che questi si sono numericamente assai dilatati ecco che anche una componente dell'economia ha ampliato i suoi orizzonti.
La mutualità è un fattore economico per cui non ci possono essere settori dai quali la cooperazione deve essere esclusa, prova ne è che ora è presente, da molto tempo, anche nel settore finanziario (sia bancario che assicurativo).
Si pensi per esempio alle banche mutue popolari o alle, ben più attuali, banche di credito cooperativo o rurali: esse sono un fenomeno assai diffuso sul territorio con forti legami con le varie comunità, ma non è affatto escluso che in un mercato globalizzato esse debbano pensare ad aggregasi per poter competere con altre strutture finanziarie già ben più grandi.
Il mercato infatti impone in alcuni settori attori economici con ampia struttura e non voler ricergare aggregazioni di crescita può voler dire imboccare strade in declino con distruzione di ricchezza.
Non dobbiamo dimenticare che la cooperazione in Italia è un fenomeno di tutto rispetto poichè sviluppa circa il 6% del Pil, quindi la valenza economica ha decisamente influsso sull'economia complessiva del paese.
Quanto poi alle origini "politiche" della cooperazione queste sono direttamente correlate alle componenti storico-politiche del nostro paese per cui tutt'oggi esistono cooperative con matrice socialista, cattolica e repubblicana e si addensano in regioni d'Italia dove permangono con maggior continuità e sono strettamente legate oltre che al territorio anche ai cosiddetti distretti industriali (alimentazione, costruzioni, meccanica,ecc).
L'evoluzione della struttura politica è comunque mutata: non esistono più veri e propri partiti di classe o interclassisti, ma esistono nuovi soggetti politici di opinione an cui interno si collocano comunque anche le componenti storiche, compresa quella nazionale.
Il fatto quindi che, ritornardo alla premessa, una parte del movimento cooperativo si sia particolarmente sviluppano sino a raggiungere dimensioni notevoli ed ad inserirsi anche nel settore finanzario del risparmio assicurativo, non può essere, in una economia di mercato, fattore disdicevole perchè risponde, anch'esso, sia alla domanda che dall'offerta presente nel mercato stesso.
Caso mai sono le scelte essenzialmente economiche che possono essere sbagliate perchè fragili o troppo rischiose, non il fatto che siano settori in cui una iniziativa cooperativa non deve entrare.
Si parla spesso di finanza laica, cattolica o rossa: queste sono semplificazioni per evidenziare le matrici sia economiche che politiche esistenti: l'impresa privata si organizza secondo settore e dimensione cosi fa l'artigianato ed altrettano fa il lavoro dipendente ed associato; al suo interno questi compartimenti sviluppano le loro idee, le loro iniziative ed anche i loro schieramenti che non sono certo avulsi da quelli tenuti nlla società civile.
Parlare quindi oggi di collateralismo può esser vero se si riconosce che questo può toccare tutti i settori e tutte le componenti sociali, ma sarebbe riduttivo riconoscerlo solo ed esclusivamente ad una parte della comunità.
Per evitare questo occorre che la politica progetti e promulghi regole chiare che evitino frammistioni tra politica ed affari, per cui nascano gruppi di potere che alterino il mercato stesso.
Già oggi comunque i comportamenti penalmente rilevanti, che possono sussistere a prescindere dal settore o dal segmento in cui avvengono, sono perseguiti , tant'è che sia nello scandalo Bpi che in quello Unipol i responsabili sono stati allontanati dai loro incarichi e sono tutti sotto indagine giudiziaria.
Quanto agli aspetti fiscali he favorirebbero il mondo della cooperazione dantogli un vantaggio competivo penso proprio che si vogliano, deliberatamente, lanciare accuse per scopi più politici che economici.
Innanzi tutto i principi giuridici a cui le cooperative sono sottoposti sono quelli di qualsiasi impresa (dalla ditta individuale alla società in accomandita per azioni) con specifiche indicazioni correlate alla tipologia di impresa (è evidente che le regole di una società semplice non possono essere tutte quelle a cui è sottoposta una società per azioni quotata in borsa).
Le regole peculiari delle cooperative, escluse quelle quotate in borsa, sono sostanzialmente due, direttamente correlate al principio di mutualità: la prima è la determinazione delle riserve obbligatorie e indivisibili che derivano dalla attività della cooperativa, finalizzate ad irrobustire l'iniziativa stessa; la seconda è la individuazione del capitale di mutualità, facoltativo, costituito dalle risorse che i soci preferiscono mantenere presso la cooperativa (va da se che più alta è questa posta patrimoniale, più alto è il livello di unione tra società e soci).
Sotto il profilo fiscale ne discende che per le società quotate non vi è assolutamente alcuna diversità rispetto a tutte le altre imprese, quotate e non; mentre per le altre l'imponibile fiscale è ridotto dal 30 al 70% a seconda della grandezza dell'impresa (non dobbiamo dimenticare infatti che ne esistino di assai piccole come quelle edili sorte per la costruzione del proprio alloggio), escludendo la riserva indivisibile (almeno il 3% dgli utili annuali) che in caso di scioglimento è destinato allo stato.
Il regolamento dei conferimenti in natura sono tassati, come nelle società di persone, direttamente con dichiarazione annuale individuale; mentre quelli da lavoro direttamente dal sostituto d'imposta cioè dalla cooperativa stessa, secondo le aliquote vigenti.
Gli interessi del capitale di mutualità versato è tassato al 12,50%, alla stessa stregua delle obbligazioni emesse da una società di capitali.
Possiamo quindi rilevare che astronomici vantaggi fiscali non ce ne sono: ce ne possono essere in misura assai modesta, ma questi non potrebbero dare alcun vantaggio competitivo perchè i prezzi, in un mercato aperto, risultano dalla combinazione sia della domanda che dell'offerta.
Certamente il meccanismo può essere perfettibile ed in tal senso sono state eliminate da tempo regole di vantaggio; nell'evoluzione del modello economico, probabilmente, ne potranno emergere altre che andranno senz'altro corrette, ma da qui a dire che le imprese cooperative non pagano tasse penso proprio sia una grossa fandonia.
Per concludere occorre aggiungere che, nel libero mercato, l'iniziativa cooperativa ha progressivamente occupato spazi che altre imprese hanno preferito o voluto non occupare tant'è che molte imprese attigono ai servizi o alla produzione cooperativa, preferendo dedicarsi ad altri core business; quindi anche qui occorre affermare che tutti i tipi di impresa hanno diritto di cittadinanza per cui tutti sono elementi fondamentali per generale ricchezza.

Rapporti di cambio lira - euro

RAPPORTI DI CAMBIO LIRA - EURO

In questi ultimi tempi si sente molto spesso rimpiangere il momento in cui fu definita la parità tra tutte le monete aderenti all' Euro per poi procedere alla entrata in circolazione dell'euro,avvenuta i primo gennaio 2002.
Viene infatti accusato, genericamente, il Governo di quel momento perchè non avrebbe curato abbastanza, nella negoziazione, un rapporto di cambio più favorevole alla Lira (rammento che a capo del Governo vi era il prof. Prodi e al ministero del Tesoro il Dr. Ciampi, attuale Capo dello Stato).
Queste accuse in questi giorni si sono concretizzate accusando gli esponenti di quel tempo per non essersi prodigati, nella negoziazione, affinchè il rapporto lira euro non fosse quello ottenuto (1936,27 lire per in euro) bensì ad un cambio certamente più favorevole di circa 1500 lire per euro.
Occorre premettere, prima di analizzare se tutto questo sarebbe stato teoricamente possibile, gli antefatti che, ci piaccia o meno, hanno portato alla nascita della moneta europea.
Partento soltanto dai primi anni novanta occorre ricordare che esisteva già una moneta virtuale, l'Ecu, risultato della media ponderata, dei corsi delle singole monete nazionali ed esisteva altresì un sistema di monitoraggio e controllo che aveva lo scopo di mantenere all'interno di un range prestabilito del 3% la variabilità delle monete che concorrevano alla sua formazione.
Negli accordi internazionali in Comunita Economia Europea esisteva pertaltro, al riguardo, la regola che se una singola moneta europea, in questo regime di cambi variabili entro il cosiddetto "serpente monetario", avesse superato tale range avrebbe dovuto rientrarvi con apposita azione monetaria di svalutazione o rivalutazione.
E' superfluo ricordare che l'uscita di una moneta nazionale dal predetto range era, nella maggior parte dei casi, causata dall'indebolimento della moneta stessa, il cui effetto dipendeva da fattori essenzialmente economici come l'inflazione, la deflazione o l'incremento eccessivo del debito statale in rapporto al prodotto interno lordo.
Purtroppo, per effetto di questi fenomeni, l'11 settembre 1992, l'Italia dovette svalutare pesantemente la propria moneta a tal punto che dovette inesorabilmente uscire dal Sistema Monetario Eeuropeo e restarvi per molti anni in quanto i rapporti di cambio tra la lira e le principali monete, incluso l'Ecu erano mutati considerevolmente: si pensi che il rapporto con il marco aumentò del 30% circa (da 650 a 950 lire) e l'ecu raggiunse le 2200 lire contro le precedenti 1800.
La politica di rientro nello Sme fu assai lunga, ma con grandi sacrifici fu ridotto il debito dello stato, l'inflazione, i tassi di interesse per cui nel 1998 la lira fu riammessa nello Sme, pronta a negoziare la fase di introduzione della nuova moneta di conto valutario sostitutiva delle varie monete nazionali europee.
Infatti la lira era , con questa azione, rientrata nei parametri principali derivanti dal Trattato di Mastricht, tranne il rapporto debito/pil che, comunque continuava progressivamente a scendere.
Per la verità in quel periodo le forze politiche ed economiche del paese non erano tutte entusiaste di entrare in questa nuova fase monetaria; taluni temevano di non aver fatto abbastanza per raggiungere una adeguata stabilità monetaria ed economica, altri non ritenevano che la lira fosse pronta a questa conversione, pensando che fosse più opportuno entravi in un secondo momento.
Prevalse comunque la volontà di entrare da subito nella fase di conversione all'Euro perchè le monete di paesi in forte recupero economico come Spagna, Portogallo e Grecia erano invece in grado di farlo e l'Italia si sarebbe trovata a confrontarsi non solo con l'euro, ma anche con monete assai forti come la sterlina inglese (che non è ancora ad oggi entrata), lo yen e soprattutto il dollaro americano.
Inoltre tale scelta diede un forte segnale di discontinuità dalle politiche passate di svalutazione competitiva, che avevano dato al paese vantaggi sulla produzione rivolta alle esportazioni, ma avevano prodotto anche alti tassi di interesse (elemento di freno per tutta l'economia interna) ed un continuo aumento dell'inflazione e del debito dello stato, che aveva abbondantemente superato il prodotto interno lordo.
Tornando al 1998 i rapporti di cambio con l' Ecu (che sarebbe stato sostituito dall'Euro)erano i seguenti:
1 Ecu = 1944,67 lire = 1,97581 marchi = 1,08772 dollari = 6,529 franchi francesi
Tali rapporti stanno a significare che l'azione dei governi succedutisi (Amato, Berlusconi, Dini, Prodi) avevano fortemente rafforzato la lira dopo la debacle dell' 11 settembre 1992, per cui la fase di negoziazione per definire i rapporti di cambio fissi e di conversione doveva per forza di cose riguardare quei rapporti di cambio ed in tal senso gli esponenti del governo in carica cercarono di raggiungere l'accordo per cui si potesse ottenere un ulteriore piccolo recupero raggiungendo le mille lire per marco.
L'biettivo fu quasi raggiunto perchè l'accordo arrivò a 990 lire per marco; conseguentemente la conversione in Euro fu quella ben nota di 1936,27 lire (poco al di sotto del cambio lira - Ecu).
Il primo risultato, ancora prima dell'entrata dell' euro il primo gennaio 2002, fu un regime di cambi fissi con le altre monete aderenti e, soprattutto, una precipitosa discesa dei cambi interni, correlati a quelli correnti in Germania, Francia,Olanda, ecc., con con conseguente maggior accesso al credito sia aziendale che privato, maggior crescita economica e ulteriore diminizione del debito dello stato.
Quindi dire ora che in quella occasione fu svenduta la lira è una solenne bestialità, assolutamente inammissibile, nemeno in un momento particolare come può essere quello costituota da una campagna elettorale.
Innanzitutto sostenere questa tesi significa non saper far di conto e non tener conto dei rapporti di cambio allora esistenti.
Infatti voler pretendere, con gli altri partners europei, un cambio più favorevole significava voler imporre una rivalutazione della lira, ovvero la svalutazione delle altre monete europee e questo non sarebbe stato assolutamente possibile visti i rapporti di cambio esistenti e monitorati nei precedenti 10 anni sia al'interno dello Sme che in rapporto a tutte le altre valute di conto valutario, dollaro e sterlina in primis.
Inoltre auspicare che allora il rapporto di cambio con marco (e con le altre monete) potesse diminuire di oltre il 25% non avrebbe dato più titolo agli stati coinvolti in questo tipo di negoziazione, poichè il range di variazione superava abbondantemente il 3%.
I fatti succedutisi dopo il primo gennaio 2002, entrata in vigore dell'euro, sono altri e sono questi ad aver creato o ampliato le disparità all'interno della nostra economia: infatti, pur in presenza di una bassa inflazione e di tassi assai contenuti (2,5% ed anche meno del 2,0%)si è verificata una grande redistribuzione di ricchezza perchè le retribuzioni dei lavoratori dipendenti sono cresciute in sintonia con l'andamento dell'inflazione, mentre i prezzi di tutti i prodotti si sono gonfiati, giocando spesso sul fatto, psicologico, che un euro corrispondesse alle vecchie mille lire.
Tutto questo ha innegabilmente prodotto la diminuzione dei consumi ed una minor crescita della economia.
Cosa si sarebbe potuto o dovuto fare ? Certamente la creazione di uno strumento efficace ed efficente di monitoraggio (peraltro previsto in teoria, ma mai attuato)dell'andamento dei prezzi; una campagna di informazione della pubblica opinione ed anche accordi specifici con categorie di produttori e distributori per governare il periodo di conversione della lira in euro.
Dire che questo sarebbe stato illiberale è affermazione, anch'essa, assai discutibile: non si comprende perchè lo stato indichi le regole di comportamento istituendo le autority in vari settori economici e consideri inopportuno invece istituirne una, temporanea, per il cambio di moneta, affinchè questo momento straordinario avvenga nel modo più ordinato possibile.
Si è scelto, coscientemente, in nome delle regole liberali, la strada più facile: cioè quella di lasciare al mercato la ricerca di un nuovo equilibrio fra consumatori e produttori, evitando pure che lievitasse il fenomeno inflattivo.
Chi ha scelto questa strada però sapeva perfettamente che nel mercato non vige assolutamente la massima concorrenza fra tutti i componenti economici, lavoro compreso; sapeva perfettamente che accanto a settori dove questa è assai forte per cui i prezzi scendono e cresce la qualità, ve ne sono moltissi altri dove i consumatori, che sono i veri datori di lavoro in una economia di mercato globalizzata, non sono per nulla in grado di mettere in concorrenza l'offerta, limitandosi a questo punto a consumare di meno.

domenica, gennaio 08, 2006

Nervi saldi cercando di non farci male

Email inviata al Presidente DS Massimo Dalema l'8 gennaio 2006
(non consegnata perchè la casella di posta non può accettare messaggi troppo lunghi)



Egregio Presidente,

penso proprio che le vicende di questi giorni sono, spero per moltissimi italiani, chiaramente smascherabili per le evidenti finalità elettoralistiche, montate dalla maggioranza di Governo.
Per qualche giorno il Cav. Berlusconi ha avuto il buon gusto di tacere, ma poi, è più forte di lui, se n'è uscito con le sue frasi ad effetto accusando i Ds di collateralismo e dimenticando che lui invece con la politica ci è andato a braccetto per anni creando l'impero economico che sappiamo.
La cosa è poi tranquillamente continuata durante l'attuale legislatura, ma per distrarre l'opinione pubblica ha pilotato l'attenzione su di Lei che si è comprato, in società e a debito, la barca a vela.
Non voglio dire che ci troviamo di fronte ad un neo maccartismo, ma poco ci manca perché si pretenderebbe che il movimento comunista restasse agli anni 50 per poterlo accantonare o discriminare accusandolo di incapacità a governare, in coalizione, il paese nel 2006.
Si inneggia alla caduta del Muro di Berlino ed al dissolvimento dell' Urss, ma nello stesso tempo si ha la sensazione che le aggregazioni politiche di centro destra se ne dispiacciano, forse perché temono di confrontarsi con aggregazioni politiche nuove, portatrici di nuovi processi e di nuove idee e strategie politiche ed economiche.
Certo il comportamento sia etico che legale degli amministratori di Unipol, se provato, va decisamente stroncato perché non è poi diverso dai disastri commessi dai Fiorani o dai Tanzi; ma da questo voler pretendere che il movimento cooperativo, dove peraltro esistono con forza componenti anche di matrice cattolica, si debba limitare ad organizzare la forza lavoro dei braccianti agricoli, dei carpentieri o dei fabbri, come nei secoli scorsi, credo ce ne corra.
Il capitalismo si è evoluto ed il mercato si è globalizzato, ma si vorrebbe pretendere che una parte della collettività dei paesi economicamente progrediti rimanga in posizione di subalternità alla stregua dei cittadini dei paesi del terzo o quarto mondo ? Caso mai dovrà essere l'economia globale che dovrà farsi carico della eliminazione delle più vistose disparità di queste nazioni e non ampliare le diseguaglianze economiche e sociali.
Della Cina ci spaventa la continua e progressiva crescita economica, ma nessuno, o pochi, evidenziano che in uno stato nominalmente comunista, non esista più stato sociale: questo si è un grande pericolo che può portare grande instabilità, altro chè la concorrenza. A che cosa serve la crescita economica di un paese (e questo vale per tutti anche per l'Italia)se poi il vantaggio non viene ripartito fra tutte le componenti che hanno contribuito a produrla ?
Quanto al dibattito scaturito e in sviluppo nei prossimi giorni mi auguro fortemente che non si prendano posizioni massimaliste o di parte ingigantendo il problema, se problema è, più del dovuto, perché il partito ha il grande compito politico di coordinare la coalizione di centrosinistra per vincere le prossime elezioni politiche, per governare con stabilità il paese e per contribuire alla nascita di un grande Partito Democratico.
Sarà questo, mi auspico, un grande passo avanti nel bipolarismo utile per la crescita sociale ed economica dell'Italia.
Cordiali saluti
Lucio Sorge