martedì, giugno 12, 2007

Dove va la Germania e dove va l' Italia

Vi segnalo un interessante articolo sulla Germania apparso ieri, 11.6.07, sul supplemento economico di Repubblica, Affari & Finanza.

Racconta molto bene ed in modo obiettivo cosa è avvenuto e sta avvenendo sul piano economico, sociale e politico in questo paese dalla riunificazione delle due Germanie ad oggi e quelle che sono le prospettive future di questo paese che viaggia ormai da due anni ad un ritmo di crescita importante (3%).

Trattandosi di un periodo che sta arrivando ai 4 lustri, è riduttivo attribuire i meriti ora ad una amministrazione ora all'altra susseguitesi nel tempo,tanto meno darne esclusivamente merito al nuovo governo nato lo scorso anno, perché i risultati vengono da molto lontano e sono stati costruiti pazientemente sia con il governo centrale che con il contributo dei vari Landers ed hanno fatto uscire questo paese da un punto di empasse che sembrava non riuscire a superare (la Germania è uscita dai parametri di Maastricht e rischiava di essere sanzionata).

Cosa è successo dunque: governo centrale e federale hanno progettato ed attuato un percorso di sviluppo economico che poggiasse sui punti di forza storici (meccanica, chimica, manifatture, ecc), ma innestando una stretta correlazione tra industria in senso lato e ricerca applicata sostenuta dal governo centrale o locale,al fine di raggiungere maggiori livelli di eccellenza ad alto valore aggiunto.

E' nato quindi un patto, mettendo da parte o stroncando senza tanti complimenti l'insorgere delle intuibili "furbizie", tra governo, impresa e sindacati, per concretizzare questo ambizioso progetto.

Il pensiero economico anglosassone e nord americano ha arricciato il naso sui termini di questo progetto perché migliorare efficienza ed efficacia nella produzione tradizionale veniva considerato meno utile che convertire su nuove tecnologie e nuovi comparti produttivi e finanziari (un pò come ha fatto Blair nel Regno Unito, dopo il deserto pietrificato prodotto dalla amministrazione Teacher) e poi perché la produzione delle solite cose, se pur eccellenti, sarebbero troppo legate alle esportazioni e quindi al rischio di un calo di domanda estera.

La Germania invece ha insistito nel voler fare le cose che ha sempre fatto in modo eccellente e per il rischio connesso al calo delle esportazioni ha decisamente puntato sulla crescita di stati che erano del terzo mondo (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica), dopo aver lavorato non poco alla integrazione fra le due nazioni tedesche.

Occorre tener presente che la disoccupazione non è ancora del tutto scesa a livelli fisiologici, che la pressione fiscale è simile alla nostra e che il sistema pensionistico è uno dei più eccellenti e costosi (ed è per questo che si è deciso l'innalzamento dell'età pensionabile salirà a 67 anni con una progressione da sviluppare in 7 anni).

Mi si dirà: interessante, ma che c'azzecca ?

C'entra e come perché, anche se con altri percorsi, la Spagna già si sviluppa a ritmi sostenuti e la Francia, che negli ultimi anni ha sonnecchiato sotto Chirac, potrebbe riprendere la marcia con l'amministrazione Sarcozy.

Mentre l'Italia invece continua a trastullarsi con battaglie di retroguardia che avvantaggiano ora una coalizione ora l'altra, ma un vero progetto di nuovo sviluppo stenta ad uscire e crescere.

Grava effettivamente sulla economia italiana un forte debito pubblico, frutto dei nostri vizietti d'un tempo, il costo nella macchina statale è elevato, ma esiste però una ricchezza prodotta, ma sommersa, di proporzioni enormi (30% del Pil ufficiale).

Inoltre non dimentichiamo che quello italiano è fra i popoli più "risparmiosi"; infatti sappiamo perfettamente che la ricchezza degli italiani è circa 7 volte il Pil annuo.

Come un gioco delle parti però si inneggia ora alla lotta contro l'evasione fiscale, ora contro la eccessiva pressione fiscale, ora contro l'imprenditoria imbarazzante, ora contro l'eccessivo costo delle amministrazioni pubbliche, ma mai accade invece che si costruisca un percorso di sviluppo economico che tenga conto di tutte le componenti, nessuna esclusa, e su questo si innestino le contribuzioni che lavoro, capitale ed istruzione debbono essere messe in campo per concretizzarlo.

Le iniziative, quando ci sono, sono estemporanee, spezzettate, senza continuità ed è per questo che si innestano poi le lotte di cortile, i particolarismi, i distinguo che ci fanno tenere il motore acceso, senza che la macchina però si metta con decisione in moto e sviluppi il suo percorso.

In questo modo si scivola molto spesso nel paradosso: si parla di pressione fiscale eccessiva, ma chi protesta dovrebbe essere chi ha un sostituto d'imposta e non viceversa; si dice che l'impresa è il motore dell'economia si dimentica di sottolineare che i dipendenti non sono un fattore incidentale; quando si parla di evasione fiscale, non si vorrebbero gli studi di settore perché basati sulla presunzione e non sulla deduzione.

Non parliamo poi della occupazione: quando si parla di flessibilità in realtà si pensa ai rapporti di lavoro di tipo precario, non posso costituire una base per programmi e sviluppi duraturi.

Sul sistema pensionistico non si vuol intendere che le età pensionabili andranno progressivamente allungate e la conferma di questa necessità sono le pensioni vigenti, delle quali circa un terzo è sotto i mille euro (cifra che tosata dal libero mercato non può che mettere in difficoltà chi non lavora più).

Le politiche lanciate di tanto in tanto sono poi decisamente avventuristiche:

con le premesse innegabili espresse non è assolutamente possibile attuare lo slogan "più mercato meno stato" perché attuarlo significherebbe pagare si meno tasse, ma anche mettere "a rientro" il debito statale, ridurre ai minimi termini la struttura amministrativa pubblica, deregolamentare un po’ tutti i settori produttivi, dei servizi, assistenziale e previdenziale e quindi ognuno per sé....

Qui si tratta invece di progettare e sviluppare realmente un percorso virtuoso che tocchi il risparmio nella politica, nella amministrazione e finanza pubblica,nel ridimensionamento del debito (ricordo che nei primi anni 70 era un quarto dell'attuale), nella revisione strutturale dei contratti di lavoro e di quelli previdenziali e assistenziali,nello sviluppo dell'istruzione correlata alle reali necessità dell'economia, della ricerca finalizzata allo sviluppo di processo e di prodotto della impresa(forse meno studi di settore e più distretti industriali abbandonati da decenni).

Le potenzialità ci sono perché l'economia italiana, nonostante tutto cresce e dimostra di saper avere i numeri per ritornare ad emergere; quel che manca è una seria e coerente politica industriale e molta coesione economica e sociale che metta da parte gli individualismi, comprendendo quindi che le opportunità debbono essere perseguite da tutti, affinchè tutti ne tragano vantaggio.