Il Mercato del lavoro, negli ultimi 10 anni, ha avuto quattro grandi riforme che hanno decisamente impattato sull'andamento dello sviluppo del nostro paese, producendo vangaggi, ma anche grandi contraddizioni che hanno "remato" contro una crescita significativa del Pil, peraltro influenzato dall'andamento dell'economia mondiale e dall'emergere - c'era da aspettarselo - delle economie orientali ed asiatiche.
Le riforme in analisi si possono riassumere in due filoni:la prima quella pensionistica e previdenziale, la seconda quella dei contratti di lavoro per la prima occupazione.
Occorre premettere che il panorama del mondo del lavoro dipendente italiano può essere riassunto in un modello nel quale l'occupazione si è - ed è - contratta progressivamente trasformandosi in occupazione autonoma per effetto, principalmente, della trasformazione organizzativa delle grandi aziende e per la nascita di nuove imprese, anche di servizi innovativi.
A questo va aggiunto che la natalità (netta) si è negli ultimi vent'anni assotigliata sempre di più (fino alla crescita zero)e per contro la vita media si è e si sta progressivamente allungando.
Pertanto questi aspetti avrebbero imposto sia la modifica, con due leggi,delle soglie di età pensionabile, sia il criterio per la determinazione della pensione, al quale va aggiunto la legge Maroni, ancora allo studio, per la trasformazione del trattamento di fine rapporto in pensione aggiuntiva.
In un panorama economico con crescita, occorre dirlo con tutta sincerità, mediamente modesto, questa manovra ha di fatto ridotto - con progressività -le risorse future degli occupati e nel contempo ha lasciato trasparire il pericolo di precludere l'entrata delle nuove generazioni nel mondo del lavoro.
Da qui è sorta la conseguente necessità di introdurre principi di forte flessibilità, anche qui con due leggi (l'ultima la L.30 "Biagi"), per favorire gli accessi al primo impiego sia dipendente che autonomo e parasubordinato.
Purtroppo però è mancata una forte e continua politica economica (a prescidere dalle coalizione che si sono succedute), per cui il mondo delle imprese ha preferito favorire molto più l'efficenza (produttività)che l'efficacia (innovazione), più le innovazioni di processo che di prodotto e il mercato divenuto globalizzato ci sta ora presentando il conto.
La poco efficace politica economica ha poi permesso che emergessero due grandi contraddizioni: la prima è che lo Stato con i suoi nuovi istituti previdenziali chiede ai lavoratori di lavorare fino a 60/65 anni (anche perchè l'inizio dell'età lavorativa si è fortemente alzato), ma le inprese - anche attraverso nuovi ammortizzatori sociali - chiedono di smettere molto prima, a 50/55 anni.
La seconda è che le leggi di flessibilità, largamente applicate, dimostrano che spazi per la nuova occupazione ce ne sono tuttora, ma che si tratta in buona sostanza soltanto di diminuire il costo del lavoro rinunciando alla "specializzazione".
Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato viene visto molto spesso come il fumo negli occhi, anche se non pochi sono i casi in cui lavoratori vengono assunti e licenziati ogni 12 mesi dallo stesso datore di lavoro e per lo stesso ruolo, per anni fino a che, dopo un lustro, il "tempo di prova" viene finalmente trasformato in assunzione stabile.
Altri imprenditori invece non sono di questo avviso e pur non "tenendo le renne sotto casa", preferiscono se pur con cautela consolidare le proprie maestranze, perchè la volatilità di queste creerebbe forti problemi nello sviluppare il lavoro con la propria clientela.
Le imprese nel loro complesso quindi hanno preferito investire sulla produttività e sulla diminuzione di taluni costi, rinunciando - nel complesso - molto spesso alla ricerca di innovazione nella quale, il lavoro, non può essere considerata una variabile indicentale.
Si è verificato e si sta verificando in buona sostanza quello che è accaduto al nostro sistema scolastico (universitario in particolare) dove le menti "eccellenti" tendono ad emigrare all'estero, oppure si orientano più frequentemente verso discipline umanistiche; inoltre, quando ne abbiamo bisogno - come in parte del settore informatico - preferiamo delocalizzare in India o in Asia piuttosto che importare lavoratori altamente qualificati.
Anche questo fenomeno ricade sul mondo delle imprese italiane, come ricade senz'altro l'uscita anzitempo di lavoratori, molto spesso qualificati, destinati nella migliore delle ipotesi alla "libera professione" o a dedicarsi al tempo libero
Un fatto preoccupante che si potrebbe verificare fra non molto nel "mitico" nord-est sarà appunto la mancanza di ricambio nella forza lavoro poichè una intera generazione, attirata dalla facilità con cui si poteva trovar lavoro, ha smesso anzitempo di frequentare scuole superiori e università e da questa fascia minore sarà la quantità di eccellenze che potranno condurre le imprese nei prossimi anni.
Un tempo l' etica del lavoro era correlata alla capicità di saper fare e fu ridimensionata dall' introduzione dell'automazione soprattutto nella produzione industriale, ma ora che potremmo utilizzarla nei settori più innovativi preferiamo farne a meno, considerandola troppo impegnativa e preferendo semplicemente ricorrere a strumenti esterni come l'outsurcing che ci aiutano, ma non ci qualificano nè ci contraddistinguono.
Se vi fosse stata una vigorosa politica economica invece, avremmo avuto certamente indirizzi più chiari delle linee su cui sviluppare l'economia, l'indicazione dei settori produttivi e di servizi nei quali è sufficiente il mantenimento e il sostegno ai settori nei quali vale la pena investire in modo significativo, utilizzando per questo cambiamento sia le esperienze e le qualificazioni dei dipendenti anziani, sia la vitalità e le specializzazioni dei nuovi occupati.
Un esempio per tutti: siamo la prima potenza agricola d'Europa, ma i nostri agrocoltori hanno i margini di redditività più bassi dell'Europa stessa, mentre il Regno Unito ha fatto una scelta coraggiosa abbandonando il settore meccanico (che non è comunque sparito) a favore dei servizi anche finanziari.
Per la verità l'iniziativa imprenditoriale e le regole di mercato aperto hanno comunque fatto sorgere iniziative nuove ed innovative,penso alle telecomunicazioni per esempio, peccato che questo settore si stia progressivamente riducendo poichè già due compagnie sono finite in mani straniere.
Qui non si tratta ovviamente di fare del nazionalismo ne del dirigismo, ma se per esempio scegliamo, come abbiamo scelto, di ridurre la produzione interna di calzature, o di abiti, dobbiamo orientarci a produzioni di beni o servizi piu qualificati ed innovativi e non delocalizzare semplicemente, facendo ricadere sullo stato sociale gli oneri di una occupazione che cresce moderatamente e su basi assai fragili (Germania docet).
Ne consegue che i processi produttivi sempre più automatizzati non necessitano di maestranze altamente qualificate; ne emerge anche l'alta interscambiabilità dei nuovi occupati, buoni più per un call center, che per sviluppare nuovi prodotti o servizi.
Ancora sulla mancata vigorosa politica economica: per diminuire lo stock del debito pubblico si son fatte grandi privatizzazioni, pensando che mercato e concorrenza avrebbero prodotto automaticamente efficenza, concorrenza con la diminuzione dei prezzi, ma è mancata la liberalizzazione dei settori protetti per cui ad un monopolio pubblico si è sostituito un monopolio privato, ma di concorrenza se ne è vista ben poca e di diminuzione dei prezzi ancora meno.
Si ha quindi sempre più la sensazione che la scarsa politica economica sia frutto di un grande compromesso: da un lato si predica il libero mercato, la libera iniziativa, la concorrenza che produrrebbero maggior qualità, quantità ed economicità di beni e servizi, ma d'altra si teme di fare il passo più lungo della gamba non attuando completamente il cambiamento.
Abbiasmo visto che grande cambiamento è e stà avvenendo nel mondo del lavoro dipendente e non (con indubbi sacrifici impliciti), ma sul fronte delle imprese, nel loro complesso, nascono i distinguo, nascono i ma o i se, con risultati certamente non soddisfacenti.
Il male della nostra struttura economica sta proprio qui: abbiamo una paura folle di abbandonare il modello del boom economico quando eravamo "i cinesi" d'Europa e non ci accorgiamo che i cinesi sono già arrivati.
mercoledì, novembre 16, 2005
Mercato del lavoro e sviluppo economico
alle 6:16 PM
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