domenica, dicembre 14, 2008

BRUNETTA: IL GENIO RIFORMATORE

Il compagno Brunetta con il passar degli anni ha affinato la sua iperattività che già mostrava da giovane quando faceva politica nel Psi veneto con Cresco , Bonfrisco ed altri.
Oggi da neo Ministro ha amplificato il suo modo d'essere esprimendosi con atti e fatti come se, con il megafono in mano, fosse alla testa di un corteo a gridare slogan che, tutti sanno, devono concretizzarsi in proposte e trattative organiche e logiche, altrimenti restano solo slogan.
Invece no: siamo sempre alla fase delle comunicazioni che hanno il solo scopo di dargli visibilità (più urlo più gli altri sentono), ma non utilità.
Ieri: ha gridato contro i fannulloni per poi affermare in luglio-agosto 2008 che le assenze per malattia, con il suo intervento, sono calate di ben il 50%.
Se andiamo a vedere il fenomeno, attingendo dai dati ministeriali, riscontriamo che si sta parlando di 11 giorni in media nell'anno 2007 (1 giorno al mese) ridottisi - dato parziale 2008 - di qualche giorno; è certo un risparmio ed un recupero di presenze, ma non automaticamente un recupero di efficenza, se i processi di produzione non vengono riformati: certo è che - come fosse il Vernacoliere di Livorno - fa più effetto il 50%, su base mensile che qualche giorno in meno su base annua.
Occorre aggiungere caro Brunetta che (non per sminuire il fenomeno ma centrarlo in modo corretto) che la media assenza delle amministrazioni statali - su 365/6 gioni di calendario - è di circa 50 giorni in media l'anno di cui 30 per ferie, 10 per malattia e 10 per altre assenze varie.
Certo è un bel cavallo cavalcare l'onda dei fannulloni della PA quando l'opinione pubblica si lamenta della qualità del servizio, della burocrazia, delle lungaggini, dell'efficenza, non delle presenze !
Oggi la musica non cambia: c'è l'uscita sul possibile aumento dell'età pensionabile - nella pubblica amministrazione - del personale femminile, che trova subito reazioni fra i sindacati, l'opposizione ed anche fra i partiti di governo.
La tecnica dello slogan, della quale è gran maestro l'On. Berlusconi , fa parlare, ma soprattutto incavolare, per cui - anche se per assurdo fosse un tema da prendere in serio esame - non è così che si affronta un aspetto assai delicato come quello pensionistico.
Tra l'altro parlare così con nonchalance della parità di pensionamento tra uomini e donne della PA - su base volontaria - appare una vera provocazione, soprattutto quando si è appena attuato - quatti quatti, uno "scivolamento" di 5 anni fino al 2011, per i dipendenti delle amministrazioni centrali (esclusi gli insegnanti), con 35 anni di contribuzione, ma senza limiti di età anagrafica !
Caro compagno Brunetta lo sa perfettamente che il sistema pensionistico è estremamente sensibile dopo anni e numerose revisioni (è dal 1994 che se ne parla), sa perfettamente che il sistema retributivo sta progressivamente scomparendo e che il crescente sistema contributivo sta mostrando in prospettiva falle preoccupanti non perchè si lavora per pochi anni, ma perchè le retribuzioni sono sempre più misere.
Il problema che deve affrontare insieme al Ministro Sacconi riguarda la flessibilità dei rapporti di lavoro che è stata strumentalizzata sino a divenire precarietà (anche nella PA) e a produrre conseguentemente retribuzioni che non soddisfano con continuità i bisogni primari dei cittadini.
Sulla pubblica amministrazione e sulla parificazione delle età pensionabili non "spari ad una mosca con il cannone": tutti i dipendenti della PA sanno che possono continuare a lavorare (se non trova il modo di liberarsene anzitempo) sino a 65/67 anni gli uomini (le alte cariche sino a 70/72) e 60/62 le donne; sanno inoltre far di conto e mano mano che l'età pensionabile a sistema contributivo pieno si avvicina (stiamo parlando del 2029 in poi) saranno loro stessi, eventualmente e in piena autonomia, a richiedere di lavora di più.
Anzi potrà essere una scelta obbligata se, come detto, non si elimineranno le cause che fanno scattare la piena e soddisfacente occupazione ad età sempre più avanzate (30 anni ?).
Utilizzi quindi la sua genialità per temi più importanti e sensibili e lasci perdere le boutades !

sabato, novembre 29, 2008

MANOVRE D’ AUTUNNO: TUTTI CAMBI AFFINCHE’ NULLA CAMBI

Il 31 marzo del 2006 scrissi un articolo molto lungo ed incompleto - che per questo non pubblicai (oltre 10 pagine) - che aveva la presunzione di analizzare la situazione del mercato, dei suoi comportamenti, dei effetti pericolosi che poteva produrre sulle famiglie e sulle imprese e delle possibili soluzioni che l’allora III Governo Berlusconi (ormai a fine legislatura) avrebbe dovuto attuare durante il suo mandato e che non attuò.

Era intitolato “Libero mercato ed effetti collaterali” in buona sostanza sostenevo in un questo “panfleth” che le regole di mercato erano state in tutti i sensi stravolte ed aggirate, per cui questo stava producendo uno stravolgimento del mercato stesso e stava creando danni incalcolabili che avrebbero stravolto la struttura delle economie.

In particolare sostenevo:

- che le regole teoriche della formazione di prezzi e tariffe, prodotte dall’incontro tra la domanda e l’offerta, pur con tutti i vincoli di produzione e di reperimento delle materie prime, avrebbero dovuto portare alla diminuzione dei prezzi al crescere della domanda, in realtà erano sostituite in gran parte da regole pratiche che le stravolgevano in buona parte (ad eccezione di qualche prodotto e servizio dove effettivamente il confronto tra domanda ed offerta era trasparente e i produttori erano in effettiva concorrenza).

- che la conseguenza erano la dislessia di prezzi e tariffe ovvero la loro formazione sempre più avulsa dalle regole di mercato (che diventa a sua volta dislessico) con la nascita quindi di una sempre più ampia rete di piccoli e grandi monopoli ed oligopoli che produceva – e continua a produrre - da un lato l’aumento dei prezzi di beni e tariffe e dall’altro una diminuzione progressiva dei consumi.

- che il risultato finale era la nercrosi del mercato e quindi del consumatore che consiste in una spirale perversa che porta inesorabilmente alla crisi economica.

Che cosa avrebbe dovuto fare ancora allora il Governo in carica ?

“ riporto di sana pianta queste considerazioni - parziali - d'allora:

Per prima cosa non avrebbe dovuto interpretare quella situazione come un fenomeno congiunturale bensì strutturale, per cui la sua azione avrebbe dovuto orientarsi non a sfornare manovre economiche sciolte in mille rivoli, ma affrontare i nodi che avevano portato a quella situazione di stallo introducendo regole che evitassero tante furbizie di sorta.

Invece no, pur in una situazione in lenta ripresa, preferì lasciare le briglie sciolte convinto che l’autoregolamentazione del Mercato avrebbe prodotto i suoi anticorpi per una pronta ripresa dell’economia.

Da buon governo liberista avrebbe dovuto invece sancire nuovamente che in un libero mercato il centro è la domanda (consumatore) che per regola dovrebbe avere il coltello dalla parte del manico, avendo invece la lama, che fa già da tempo le sue scelte di economicità fin dove può (l’ha sempre fatto per la verità): seleziona i consumi, sceglie gli offerenti ( i discount proliferano a vista d’occhio) ed attende tempi migliori che però non debbono tardare.

L’offerta (produttore) deve necessariamente esaminarsi e fare scelte coraggiose: pensare e progettare di produrre di più, a più basso costo e a più basso prezzo rendendosi conto che la sua non è una scelta umanitaria, ma è una scelta obbligata per il suo futuro, necessaria per la sua stessa sopravvivenza.

L’impostazione del attuale Governo Berlusconi che con la sua filosofia pseudo liberista ha fatto in realtà intendere che produttori e grande distribuzione potevano fare dei prezzi quel che volevano, va invertita con decisione: occorre che l’offerta, nel suo stesso interesse, faccia con decisione un passo in dietro intraprendendo una politica autonoma di diminuzione dei prezzi (con controllo stretto da parte delle Istituzioni) introducendo il principio della “accettabilità” dei prezzi stessi, regola peraltro largamente utilizzata nella formazione e lancio di nuovi prodotti e servizi che va perpetrata e controllata anche nella vita successiva dei prodotti e servizi stessi.

Certo, soluzioni ce ne possono essere altre, come quella di cercarsi altri mercati in alternativa a quelli storici, ma questo comporterà oltre che vantaggi anche maggiori impegni di quelli che avrebbe restando ad operare nei luoghi d’origine; comunque il modus operandi non potrà che essere lo stesso: entrare in un nuovo mercato del Terzo Mondo per esempio dovrà necessariamente comportare il rispetto della regola della “accettabilità” di prezzi e servizi in quanto, diversamente, sarà ancora più repentino il flop che si può preannunciare sui mercati domestici.

Non va dimenticato infatti che la crisi del nostro paese, arrivati a questo punto, non è di produzione bensì di consumi per prezzi troppo alti e per salari o retribuzioni nette sostanzialmente ferme (di trasferimenti di ricchezza dalle imprese ai dipendenti non se ne parla proprio).

Le Istituzioni a questo punto (ed in particolare gli organi di Governo nazionale e locali), debbono allestire dei veri e propri osservatori sull’andamento dei prezzi e delle tariffe per contrastare le anomalie del mercato (sull’esempio degli accordi con Farmindustria per il latte in polvere)…………………………………………………………………………………………… “”

Ebbene di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia; da quel marzo 2006 abbiamo avuto il II Governo Prodi, la sua repentina ed anticipata caduta (dove sono apparsi i primi abbozzi ai cambiamenti strutturali ma hanno prodotto solo violente ed immobilizzanti reazioni) ed un trionfante IV Governo Berlusconi, ma la “piccola” crisi economica del 2004-2005 è riesplosa più virulenta che mai e – crisi finanziaria o no – questo sarebbe avvenuto comunque, forse non così forte, ma comunque avrebbe presentato un conto assai severo come quello che stiamo riscontrando oggi.

Il Mercato incontrollato ha prodotto un impoverimento dei redditi medi e ancor di più di quelli medio bassi e bassi; il calo dei consumi conseguente ha preso una china che non sappiamo quando finirà e soprattutto dove porterà.

I “difetti” di questo Mercato ovviamente persistono perché continua il fenomeno per cui i prezzi aumentano all’aumento delle materie prime, ma quando ridiscendono (che sia petrolio, frumento o mais) i prezzi finali scendono lentamente o addirittura aumentano.

A questo punto se non si vogliono attuare politiche di controllo adeguate (non capisco però perché, quando si vuole, si riesce a multare qualche grande player internazionale come Microsoft) si agisca sulla formazione e soprattutto sulla distribuzione della ricchezza.

Certamente è nelle situazioni di crisi che si possono gettare le basi, intelligenti, per riprender quota, per eliminare difetti ed errori del passato e per programmare gli investimenti futuri.

E’ una fase estremamente delicata perché da un lato occorre mettere una toppa per arrestare la china, ma contemporaneamente occorre selezionare gli interventi che effettivamente consentano sia subito che in prospettiva di crescere economicamente, progettando un modello economico che non avvantaggi nessuno, ma dia opportunità a tutti.

E’ il momento di ricercare economie ed efficienze in tutti i settori produttivi, anche nella pubblica amministrazione, ma mettendo da parte tutti idee malsane e furbizie che portino ad avvantaggiare sempre i soliti noti.

Invece, nonostante la maggioranza ottenuta, il Governo in carica mette in cantiere, sul piano economico azioni di piccolo cabotaggio che non affrontano i danni prodotti dal liberismo cavalcato, non hanno il coraggio di metter mano profondamente alle regole che riequilibrino i rapporti di forza nel mercato, nell’economia, nella società e tra i fattori produttivi.

Non ci si domanda perché buona parte delle pensioni sono diventate in pochi anni cosi misere e la prospettiva che lo saranno anche le future (si potrà anche aumentare l’età pensionabile ancora una volta, ma sarà sempre un pannicello che non scioglierà i nodi a monte, per cui a valle sarà ancora debacle); lo saranno perché il reddito lordo da lavoro dipendente diminuisce sempre di più, soprattutto per le nuove generazioni e quello al netto fiscale e previdenziale è ormai insufficiente: nel patto sociale del 1992 si è messa in soffitta la scala mobile, si sono creati poi rapporti contrattuali flessibili per creare un mondo del lavoro più dinamico, per ricercare maggiori produttività ed efficienze, ma poi si è profondamente alterato il rapporto nella distribuzione della ricchezza e su questo, nonostante le continue denuncie, non si è fatto nulla.

Oggi siamo alla frutta con iniziative caritatevoli verso i possessori di redditi divenuti miseri in pochi anni, o ergogazioni progressive una tantum verso redditi da lavoro (per nucleo familiare) che potranno consentire di superare una emergenza, ma non potranno certamente produrre tranquillità per il futuro.

Non si tratta qui di dimostrare contrarietà comunque – a prescindere – ma si vuol denunciare che il modello pensato, attuato o favorito in questi ultimi 15 anni si è rivelato un grosso fallimento per i danni che ha prodotto e ci vuole quindi il coraggio implicito a cambiare rotta, pur con i vincoli postici dal livello del nostro debito statale.

Qui non si tratta di aprire le borse, ma si tratta di selezionare pochi ma efficaci interventi che portino alla crescita dei redditi disponibili in via continuativa (i profitti le imprese li avranno dai maggiori consumi), alla creazione di nuova produzione qualificata come nelle opere infrastrutturali e negli investimenti “ambientali”.

Certo, comprendo il timore di fare un passo (come la diminuzione del prelievo fiscale irpef) e poi non riuscire a rientrare nei parametri di Maastricht in poco tempo, ma occorre qui si coraggio e decisione, dimenticandosi almeno per una volta che non si governa per se, ma per tutti gli italiani.

Diversamente sarà ancora: tutto cambi affinché nulla cambi!

lunedì, novembre 24, 2008

GOVERNO INCONCLUDENTE

Sono passai ormai 6 mesi dall’insediamento della nuova maggioranza e del IV Governo Belusconi, ma non possiamo non rivelare che tante sono le enunciazioni, tanti i problemi, tanta la carne messa al fuoco, ma ben pochi gli obiettivi raggiunti che portino ampia soddisfazione nell’elettorato vincente ed i riconoscimento da parte dell’opinione pubblica che qualche cosa di nuovo (anche se non proprio da tutti condiviso) stia nascendo.

Quel che conta per la gente sono i fatti e i relativi cambiamenti che possano essere toccati e riscontrati con mano.

Certo la Finanziaria è stata blindata e i conti dello Stato sono stati messi in sicurezza, l’Ici prima casa è stata abolita totalmente, i rifiuti a Napoli sono apparentemente messi sotto controllo, l’Alitalia è stata ceduta, è stata enunciata la nascita della Robin Hood tax, sono stati enunciati programmi di riduzione della spesa pubblica, la percezione dei rischio sicurezza è decisamente in calo, ma quello che si aspetta l’opinione continua ad essere disatteso, mentre la crisi finanziaria ed economica continua imperterrita ad aggravarsi.

Tra l’altro questa situazione finanziaria e soprattutto economica era stata largamente prevista anche nel libro del Ministro Tremonti, ma già le prime azioni di governo non ne tengono conto: si sono blindati i conti dello Stato, ma l’operazione Ici e quella Alitalia producono e produrranno incremento di spesa per svariati miliardi di euro; la Robin Hood tax rischia di produrre un minor gettito stante gli effetti della crisi finanziaria mondiale che influiscono sui conti economici della nostre banche, come potrà influire la diminuzione prevedibile ed auspicata del prezzo del petrolio su quelli delle compagnie petrolifere (accompagnato dal minor gettito delle accise e dell’iva).

Sul problema Sicurezza poi le poche e marginali cose attuate, non possono certo giustificare la sua migliorata “percezione”; in realtà, proprio perché è una percezione, è il battage pubblicitario montato ad arte che cambia continuamente tema: alla fine del III Governo Berlusconi si parlava di quarta settimana che è diventata la terza con il II Governo Prodi, ma in campagna elettorale è esploso il problema sicurezza ed immigrazione, sostituito nuovamente dalla terza settimana, dalla crisi finanziaria internazionale e dalla ciclica e pesante crisi economica.

Per carità sono tutti grandi temi, ma proprio perché lo sono vanno affrontati per quello che effettivamente sono (con un peso specifico diverso) attuando azioni che siano effettivamente efficaci.

Invece, nonostante la larga maggioranza, nonostante la sua blindatura, le azioni sono obbiettivamente miserelle e a queste si aggiungono azioni del tutto fuorvianti: la prima è quella di voler stravincere – a partita chiusa - mettendo sempre più nell’angolo i partiti d’opposizione rimasti; non ha alcun senso farlo se si è e ci si sente decisionisti ed inattaccabili.

Oppure questo comportamento significa il timore del giudizio delle opposizioni, ovvero l'insicurezza derivante dal non fare il proprio mestiere e dovere.

Counque il Governo in carica continua ad infilarsi in iniziative che prese a se stante possono essere pur importanti, ma in realtà sono collaterali ai problemi principali che continuano a non essere presi.

Il Governo ha speso tempo e risorse inutili per la Commissione di Vigilanza Rai ed alla fine ha incasinato la situazione che la maggioranza stessa ha provocato: il Presidente Villari eletto con i voti della maggioranza (più due ininfluenti) non si è dimesso, per cui deve esser chiaro che la responsabilità è tutta dei “genietti” del Centrodestra, non certo dell’opposizione che ha insistito a pieno diritto su un candidato di tutto rispetto.

Stravincere è la regola e questa operazione è stata montata, con l’aiuto di Villari, per dividere quei tre partiti rimasti.

Sulla scuola primaria e sull’università si è innescato un bailamme, così tanto per fare e mettere le premesse per una divisione tra i sindacati quando si è trattato di concordare il rinnovo del contratto di lavoro nazionale e per consolidare l’idea di una istruzione d’elite e non d’eccellenza.

La strada per razionalizzare la scuola primaria non può essere quella intrapresa: sperare che le cose si aggiustino e migliorino semplicemente riducendo il perimetro degli occupati del comparto tornando al maestro unico o di riferimento è una pia illusione: il Ministro dell’Istruzione non ha nemmeno analizzato (e se lo ha fatto non lo ha mai riferito) quanti saranno nel prossimo futuro il “monte” scolari che avranno bisogno di istruzione sulle quali va calcolato e previsto il "monte" insegnanti.

Si è limitata ad affrontare la scolarità dei bimbi figli di stranieri immigrati: il fenomeno esiste almeno da 10 anni, ma solo ora rappresenta dimensioni importanti ed ecco che, incartandosi ancora una volta, ci si inventano le classi “differenziate” che apparentemente hanno lo scopo di affrontare meglio il problema, ma in realtà cozzano con le regole pedagogiche di base e puzzano un tantino di apartheid.

Infatti va potenziato il sostegno a questi scolari o durante l’orario normale o con ripetizioni a hoc pomeridiane affinché vi sia una stretta correlazione e verifica con gli insegnanti, i programmi e gli altri alunni.

Invece, proprio perché i sistemi scolastici ed i programmi di studio non sono tutti eguali fra gli stati (sia europei che di altri continenti) occorrerebbe verificare il livello di preparazione di questi nuovi studenti stranieri per inserirli nella giusta classe corrispondente ed evitare quindi che partano o continuino la scuola con un handicap: l’istruzione è una cosa seria ed erogarla in modo approssimativo può produrre effetti pericolosi sulle nuove generazioni.

Anche sulle università si pensa di risolvere i problemi (baronie,numero delle università, numero delle facoltà, scarso numero di laureati,ecc) con la loro trasformazione in fondazioni private.

Non ci siamo: si ha la presunzione che questa sia una magia che elimini del tutto queste anomalie grandi è piccole mentre in realtà significa prima di tutto di abdicare al proprio ruolo che è anche quello saper combattere contro fenomeni simili, di avere il coraggio di sciogliere le baronie, le facoltà con pochi studenti, di concentrare le università che ormai sono sparse in Italia come gli aeroporti (tante università sono sinonimo - spesso - di potere locale non dimentichiamolo).

E’ veramente buffo e singolare la denuncia del Centrodestra sulla baronia dilagante: sembra che sia un fenomeno nato in poche settimane o mesi fa, mentre è una usanza che esiste da secoli e poter pensare che lo strumento della Fondazione sia la leva che lo scardini è una pia illusione.

La baronia va scardinata abolendo la cooptazione dilagante che favorisce amici, familiari, parenti, ecc.; il sistema di scelta del corpo docente va radicalmente modificato, altrimenti questa piaga si trasferirebbe anche nelle fondazioni private; inoltre pensare che il privato sia obbligatoriamente ed automaticamente il meglio per raggiungere efficienza ed eccellenza nelle università non corrisponde al vero: il privato potrà essere attratto –se avrà risorse – da università in cui potrà intravedere un business, ma lascerà perdere le altre la cui scarsa (?) qualità o interesse resterà sulle spalle dello stato.

L’abbiamo visto in tante occasioni: non sempre privatizzare e sinonimo di meglio, anzi abbiamo visto sostituirsi tanti monopoli privati ad altrettanti pubblici.

Sull’istruzione in genere, proprio per sostenere la tesi in cui lo stato abdica alla sua funzione istituzionale di governarla, se ne stanno sentendo di veramente singolari come quella che sostiene lo scarso livello della attuale classe dirigente figlia del 68, dell’equalitarismo di sinistra e del 18 politico (Barbareschi); sono stato per 60 anni veramente distratto: non mi sono mai accordo che dal dopoguerra ai primi anni 90 il potere l’avesse la Dc, ma le decisioni le prendesse invece il Pci!

Ma tornando alla azione del Governo in carica continua ad infilarsi in gineprai di secondo livello per importanza dove si concentra – per forza di cose -l’interesse dell’opinione pubblica, come la modifica della legge elettorale per le elezioni europee, ma si dimentica che è sotto la spada di Damocle del referendum relativo alla legge elettorale per le elezioni nazionali che si terrà il prossimo aprile.

L'azione è in modo lapalissiano orientata a tagliare ancor di più il quadro politico: meno avversari, meno fatiche.

Glissa invece su iniziative a suo tempo tanto sbandierate come le modifiche costituzionali relative ai decentramento amministrativo (province si o province no), alla modifica del sistema bicamerale e a quella tela di Penelope costituita dal Federalismo Fiscale, commendevole iniziativa della Lega, sul quale il dibattito deve essere bipartisan e quindi ampio ed articolato; nello stesso tempo però il tema è assai spinoso proprio per le sue tematiche, divenuto ancor più complicato dal fatto che il Governo continua a tenere a debita distanza, come fossa una appestata, l’opposizione con la quale dovrà comunque fare i conti (se non vuol fare la fine delle modifiche costituizionali approvate a maggioranza nel 2005 e spazzate via dal referendum abrogativo del 2006).

Il Federalismo Fiscale non è una cosetta da nulla e non si limita ad invertire il processo impositivo (dalle Regioni allo Stato ed al fondo di solidarietà); se fosse solo questo ci sarebbe da discutere solo se sia assolutamente vero che l’assunzione di responsabilità impositiva implichi automaticamente una gestione attenta, risparmiosa e con alto senso di responsabilità di gestione di queste risorse.

Siamo poi assolutamente certi che il rapporto più stretto tra elettori ed eletti produca un miglior controllo dal basso affinché la gestione delle risorse avvenga nel miglior modo possibile e con la massima efficacia ?

A parte queste tematiche comunque il lavoro prodotto dalla Lega tocca aspetti assai delicati ed importanti: uno riguarda il riassetto possibile delle tasse locali e questo rimette in gioco una tassa come l’Ici che possa, nel progetto, riaccorpare tante tasse o tariffe locali; l’altro riguarda il calcolo obbiettivo dei costi di prodotti e servizi (una sorta di centrale acquisti) che non poggia più sull’arcaico principio dell’aumentare la spesa pubblica della percentuale prevista per la crescita dell’inflazione.

Il progetto è quello di creare un sistema di valutazione univoco per pagare un servizio o un prodotto per quello che oggettivamente vale ottimizzando e contenendo la spesa pubblica, non più quindi usando sistemi comparativi che hanno favorito differenze – tra una regione e l’altra – inconcepibili.

Le tematiche sono parecchio complicate e delicate perché implicano una rivoluzione di pensiero ed azione che non sarà facile far digerire all’apparato politico ed amministrativo e potrà certamente creare reazioni e contro reazioni; proprio per questo se e parla poco e si glissa per non disturbare il Manovratore.

Dulcis… ma non in fundo la questione economica; è il tema principale al quale è interessata indistintamente tutta l’opinione pubblica perché il Pil è in calo per effetto del calo produttivo e dei consumi, le esportazioni sono in calo perché la crisi coinvolge indistintamente tutti i paesi della terra, il risparmio è in calo perchè i redditi non crescono o quantomeno i prezzi crescono ancor di più, la tassazione – soprattutto per chi non ha vie di fuga – è sempre più pesante eppure il Governo in carica latita in modo evidente.

Eppure il Governo aveva previsto quel che sarebbe successo e non ha pensato nemmeno lontanamente a prepararsi e ad attrezzarsi; anzi sbandiera una imminente manovra da 80 miliardi di euro, ma in realtà con questa orienterà in modo diverso risorse già stanziate (fondi Ue), imporrà investimenti ai privati in cambio di aumenti delle tariffe (autostrade) programmerà lauti investimenti finanziari a protezione di banche e risparmiatori e si limiterà con il pannicello caldo per qualche miliardo di sostenere le imprese (riduzione Irap) e a sostenere chi proprio non ce la può fare, mentre invita sin da ora chi ha ancora qualche riserva di essere ottimista e di spendete per sostenere i consumi (chi ha margini di risorse, con l'incertezza sul futuro , se ne sta, invece, bello abbottonato).

Penso che a questo punto il piano del Governo appaia molto chiaro: coinvolge l’opinione pubblica, utilizzando sapientemente la leva mediatica, su i tempi più disparati, magari anche sul sesso degli angeli, ma sulle necessità o timori primari degli italiani (che sono essenzialmente economici) glissa in modo evidente.

Non penso assolutamente si tratti di incapacità o insipienza , ma denuncio una chiara strategia politica che ripercorre e ripete quella sviluppata nel II e III Governo Berlusconi: nel 2001-2006 lasciò corre l’economia, non governò la crisi del 2004-2005, lasciò che il cambio di moneta si assestasse a suo piacimento (rinfacciando poi spudoratamente e cervelloticamente l’operazione di con cambio a Prodi e Ciampi) e produsse una delle più ampie redistribuzioni della ricchezza nel nostro paese e la nascita e sviluppo di una miriade incontrastata di monopoli piccoli e grandi (l’osservatorio prezzi al change over del 2002 era una bestemmia contro le regole del Mercato).

Oggi abbandonate quelle tesi, si inneggia alla economia sociale di mercato, ma ci si limita a modeste politiche compassionevoli che perpetueranno sotto altra forma le politiche del passato.

Si preparino gli italiani tutti: il Governo e la Maggioranza in carica non riesaminerà le proprie politiche come stanno facendo indistintamente gli altri paesi come Francia, Germania, Spagna e Regno Unito; non muoverà foglia o farà qualche timido passo tanto per dimostrare di aver esaminato il problema.

L’attuale crisi finanziaria ed economica ha insegnato a tutti i paesi (anche la Cina che mette in campo una quantità enorme di risorse per modernizzare il paese) che gli sviluppi degli ultimi 10 anni poggiavano sulle sabbie mobili ed oggi cominciano a mettere in campo iniziative decisamente nuove per invertire la rotta e creare nuove e valide fondamenta.

Anche l’America si appresta a grandi cambiamenti: la manovra fiscale per aumentare il reddito disponibile della middle class, la riduzione degli interventi militati per finanziare il sistema sanitario pubblico, il piano di potenziamento delle infrastrutture, l’ incremento dell’industria manifatturiera per rilanciare l’economia e la piena occupazione.

In Italia invece, confidando magari nel solito stellone, il Governo in carica attuerà qualche modesto beau geste così, tanto per accontentare – mediaticamente – l’opinione pubblica e dimostrare il suo pseudo decisionismo che non accontenterà, alla fine, nessuno. Anzi !


mercoledì, novembre 05, 2008

BARACK OBAMA: L’ AMERICA VOLTA PAGINA

Questo 4 novembre gli americani hanno dato un indirizzo inequivocabile al loro futuro scegliendo nuovamente, dopo 8 anni, un candidato democratico, candidato che non appartiene però all’apparato politico, essendo un semplice senatore; precedentemente Clinton era già il governatore in carica dell’Arkansas e sua moglie Hillary, competitrice alle primarie apparteneva, lei stessa ,all’apparato politico democratico.

Il voto quindi rappresenta una indicazione di assoluta novità voluta dall’elettorato scegliendo quindi un candidato giovane e innovativo secondo quanto dichiarato in campagna elettorale.

Lo spostamento verso il partito Democratico era già nell’aria con l’enorme afflusso alle primarie dove i candidati rappresentavano comunque una discontinuità con il passato: la competizione era tra una politica donna ed un politico meticcio-afro, che costituivano una assoluta novità.

La scelta non è stata facile, ma probabilmente la più azzeccata visto che Obama è un autsider a tutti gli effetti, mentre Hillary Clinton poteva costituire, pur con la forza politica pesante all’interno del partito, un remake, avendo fatto la first Lady per otto anni.

Anche Mccain è stato un concorrente che poteva segnare la discontinuità, non appartenendo ad alcun apparato del partito Democratico, ma solo ad una famiglia di alti servitori dello Stato, ma con il forte handicap costituito dalla amministrazione Bush la cui politica economica e internazionale, via via, è stata sempre meno apprezzata dagli americani e dagli altri stati del mondo.

L’America non ha voluto correre il rischio che si potessero reiterare i danni provocati da Bush al quale una larga parte dell’ America rinfaccia di aver utilizzato per scopi politici, di parte ed elettorali il dramma dell’ 11 settembre 2001.

Oggi, Barack Obama, con la schiacciante vittoria ha un grande ed impegnativo compito: quello di dare fiducia e nuovi obiettivi e traguardi all’ America e di proporsi al mondo con nuove politiche per lo sviluppo dell’economia, della difesa dell’ambiente e della sicurezza nel mondo.

Oggi il sogno di M.L. King si è avverato ed oggi abbiamo un uomo al comando (dal 20 gennaio 2009) che sembra per grinta, determinazione e chiarezza di obiettivi assomigliare molto a J.F. Kennedy.

Non possiamo che essere felici di questo storico cambiamento ben sapendo comunque che alla sua guida l’America continuerà, su nuove basi, ad essere la nazione guida per la terra e quindi non dobbiamo assolutamente immaginare che i risultati che potrà conseguire questa nuova Amministrazione, siano automaticamente favorevoli al mondo intero.

La politica economica certamente cambierà, ma l’obbiettivo sarà senz’altro quello rigenerarsi ed ampliarsi e questo imporrà comunque agli altri paesi, Europa in primis, di misurarsi su nuovi valori; basti pensare al rapporto euro-dollaro: è ragionevole pensare che il futuro riservi rapporti di cambio più apprezzabili del dollaro e questo significherà per l’area euro avere più vantaggi per l’export, ma nel contempo svantaggi per l’import (soprattutto relativo all’energia se permangono livelli di prezzi così alti).

Barack Obama ha promesso grandi investimenti strutturali in America e questo significherà maggior competizione ed efficienza per cui anche gli altri paesi non potranno far finta di nulla e dovranno sapere ricercare linee di sviluppo altrettanto competitive e efficienti.

La politica internazionale e la sicurezza ad essa connessa potrà significare lo sviluppo del multi lateralismo, ma questo comporterà maggiori assunzioni di responsabilità politica e negoziale degli altri paesi ricercando formule e novità più efficaci e più efficienti relativi a strumenti esistenti; penso alla Nato, alle Nazioni Unite, alla Fao e al Fmi, ai vari G 7,8, ecc. dove le politiche e le organizzazioni dovranno essere per forza ridisegnate e modernizzate.

Penso al ruolo nuovo che occorrerà approntare per sciogliere la storica crisi medio orientale, ai nuovi rapporti con i, ormai non più, paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia, Southafrica, Estremo Oriente) e non ultima all’Africa che presenta continue e massacranti crisi negli e fra gli
Stati che stentano a trovare pace ed una loro chiara collocazione politica, economica e sociale.

Oggi non possiamo quindi gioire (forse anche troppo) e pensare nello stesso tempo che questo cambiamento storico possa procurarci solo vantaggi; dobbiamo sapere sin d’ora che nasce anche per noi una nuova sfida perché l’America cambierà senz’altro, ma non starà certamente li ad aspettarci.

venerdì, ottobre 31, 2008

SCUOLA D’ ECCELLENZA O SCUOLA D’ELITE

La consestazione studentesca che è motata già da qualche settimana e la manifestazione sindacale del 30 ottobre nelle principali piazze (oltre a Roma non dimentichiamo Milano) contro il Decreto Gelmini e contro e la Legge Finanziaria triennale di Tremonti – al di là dei numeri – mostrano una profonda insofferenza e preoccupazione che investe la scuola italiana e quindi una importante fetta dell’opinione pubblica costituita da famiglie, studenti e insegnanti di ogni ordine e grado nonché il personale non docente.

Non sono certamente le novità che possono preoccupare questa fascia di opinione pubblica ( ma anche la restante, imprese comprese, che beneficiano della formazione scolastica degli italiani) perché le novità, se ben spiegate per modalità ed obiettivi, dovrebbero portare sempre a miglioramenti significativi sia per le casse dello stato che per tutta la comunità.

Obbiettivamente il mondo della scuola nella sua totalità (studenti, insegnanti, famiglie non docenti) sa riconoscere perfettamente dove si può migliorare, dove si può economizzare, dove si può aumentare l’efficienza e migliorare l’eccellenza, dove ci sono atti, fatti e comportamenti da eliminare, ma non ha ovviamente la capacità e soprattutto il potere per cambiare; a questo ci deve pensare lo Stato che ha il preciso dovere di provvedere all’istruzione ed alla crescita culturale del paese.

Ecco perché lo Stato attraverso i suoi strumenti di governo deve analizzare e spiegare preventivamente i percorsi che intende attuare per cambiare le cose che non vanno e che sono riconosciute anche dal mondo della scuola e dal ceto politico, con i quali è necessario però confrontarsi per la buona riuscita del cambiamento.

Invece il Governo Berlusconi, con il vecchio assioma, maggioranza-decisione-effetto, nasconde invece, o vorrebbe nascondere, i risultati che non sono, alla fine della fiera, per nulla coincidenti agli obiettivi dati e promessi.

Qui non si tratta di sentirsi, se pur maggioritari, sotto tutela, ma proprio perchè maggioritari, forti delle proprie certezze, si dovrebbe avere la serenità di sostennere la bontà delle proprie idee e proposte.

Apparentemente quindi sembra una azione di razionalizzazione per eliminare sprechi e contenere la spesa, ma in realtà sono tanti piccoli elementi (che fanno una valanga) che prefigurano risultati di tutt’altro genere soprattutto nella scuola superiore e nell’università.

Innanzitutto se si vuol affrontare seriamente il mondo scolastico il Governo in carica, come qualsiasi altro, deve pensare all’oggi e soprattutto al domani per cui non mi risulta assolutamente che abbia preventivato quanti saranno gli studenti di ogni ordine e grado che, nei prossimi dieci anni per esempio, avranno necessità di istruzione e conseguentemente che ampiezza dovrà avere il corpo docente; sulle proprie decisioni va tenuto conto quindi se le previsioni saranno di crescita, di decrescita o stabili.

L’analisi andrà diversificata – oltre che per località - ulteriormente soprattutto per le superiori e l’università dove gli indirizzi sono legati alla scelta degli studenti stessi secondo le loro aspettative ed orientamenti culturali e didattici; la cosa non è facile, ma questo è proprio il mestiere di chi gestisce il Ministero della Pubblica Istruzione, ricordando però che non si può arrogare il diritto di predeterminare i traguardi didattici da perseguire ( più ragionieri che ingegnieri, più architetti che informatici, ecc o viceversa) .

Quindi se si decide che il tour over riguarderà solo il 20% degli insegnanti che andranno in pensione e questo corrisponde ad una futura e prossima minor necessità d’istruzione per un calo vistoso degli studenti, questo va detto a chiare lettere; se invece si risponde che non ci possiamo permettere una spesa simile, ciò sta a significare che pur al netto di accorpamenti in classi più numerose, lo scopo in realtà è quello di abbassare la qualità dell’istruzione già a partire dalle scuole elementari.

L’obbiettivo non è la migliore qualità della scuola, ma la diminuzione dei costi con meno insegnanti, con l’eliminazione del tempo pieno, con l’introduzione del maestro prevalente e con classi – conseguentemente - con formazioni “oceaniche” e didatticamente ingovernabili.

Inutile dire che le migliori basi formative (ed educative) partono proprio dalla scuola elementare per cui fare errori a questo livello significa rendere più fragili le formazioni successive (medie e università) mancando clamorosamente all’obbiettivo di una migliore scolarità e di una migliore preparazione dei futuri lavoratori.

Aggiungo poi che se queste sono le prospettive, le famiglie italiane cominceranno a farsi qualche conto in tasca e chi potrà ricorrerà alla scuola privata ed ancora una volta si sostituirà l’opportunità con il merito.

E’ pur vero che “con meno di fa di più” (o la necessità aguzza l’ingegno), ma i cambiamenti non possono essere radicali; non vanno trattati con freddezza, ma vanno divulgati, discussi, spiegati coinvolgendo il mondo della scuola per condividere obiettivi che devono essere convincenti; la stessa riforma Moratti, in molti tratti non pienamente condivisibile, è entrata in funzione dopo una ampia e lunga divulgazione e discussione e non nel giro di qualche giorno (o di qualche ora come nel caso della legge finanziaria di Tremonti).

Nel settore universitario, proprio con i pesanti tagli della Finanziaria e con l’introduzione della trasformazione degli atenei in fondazioni si vuole accelerare il progetto di rinunciare da parte dello Stato in primo luogo al proprio dovere e in secondo luogo di ridurre nei fatti l’accesso al mondo universitario.

E’ vero che ci sono troppe università, troppe facoltà e troppi indirizzi, che esiste e persiste la baronia, ma pensare che “tagliando i viveri” tutto si aggiusti e si trovino percorsi virtuosi e l’efficienza è pura demagogia (ingenuità strumentale).

Riguardo la baronia universitaria, nonostante le grandi contestazioni del passato, non è stata debellata perché i suoi comportamenti (nepotismo, clan ristretti, favoritismi, ecc) non sono certo diversi da quelli numerosi della restante società civile dove le camarille e le furbizie spopolano, dove gli sprechi sono numerosi, dove il ceto politico dal Parlamento agli enti locali non sempre è perla di integrità e correttezza.

Voler far fare quindi il “lavoro sporco”ai privati tramite le fondazioni, servirà a poco: sostituiremo le baronie pubbliche con quelle private e non è assolutamente detto che la qualità aumenterà; soprattutto chiuderemo di parecchio l’accesso alle università raggiungendo il grande obiettivo di ridurre la quantità dei prossimi laureati.

Splendido: oggi i neorauleati non trovano facilmente lavoro stabile ed addirittura emigrano; domani chiuderemo o apriremo gli accessi a seconda del bisogno, ricorrendo magari a neolaureati di altri paesi, mentre i nostri giovani staranno a far la calzetta.

Il mondo universitario invece va affrontato invece in altro modo (sempre con l’obbiettivo di contenere o ridurre i costi): oltre all’autonomia economica va introdotto il controllo – preventivo – delle iniziative degli atenei; ci si è mai domandati perché sono aumentate università, facoltà ed indirizzi di studio ?

Tutto questo non è nato perché sollecitato dalle esigenze della società civile, ma perché questa proliferazione faceva comodo alle politiche di sviluppo del territorio per ricercare consenso politico, scardinando ed addomesticando la riforma universitaria del 1999 (sia chiaro: questa tigre l’hanno cavalcata un po’ tutti).

Qui si che si può far molto partendo da possibili accorpamenti per ridurre il numero delle università, delle facoltà e degli indirizzi di laurea; programmando struttura didattica e piani di studio perché queste sono le cause che hanno prodotto la crescita esponenziale dei costi.

Per la ricerca vanno ricercati canali di collegamento con la struttura economica del paese o del territorio (come in Germania) perché ci sia simbiosi tra ricerca ed applicazione, dove l’una influenza l’altra e viceversa e dove si possono trovare anche risorse aggiuntive.

Se invece si continua per la strada vecchia ecco che si alimentano le storture della baronia universitaria dove la potenza del barone è costituita dal numero di ricercatori ( più sono meglio è) incrementando una auto referenzialita’ a detrimento di altri comparti didattici dove la ricerca invece dovrebbe e potrebbe essere potenziata.

Tornando alle manifestazioni quindi la gente ha perfettamente capito che non crede assolutamente alle enunciazioni del governo che ha parole sostiene di agire per una Scuola d’eccellenza, mentre in realtà sta’ operando per una Scuola esclusiva e d’elite.

lunedì, ottobre 27, 2008

25 OTTOBRE 2008: SI RIPARTE ?

La manifestazione del PD a Roma, sabato scorso, rappresenta un fatto decisamente nuovo sullo scenario politico italiano che merita analisi obiettive, ma soprattutto può costituire una premessa per cominciare ad ottenere adesioni crescenti e convincenti da parte dell’opinione pubblica e dell’elettorato.

Il fatto che sia una novità degna di considerazione lo dimostrano sia le reazioni della maggioranza e che le contro repliche degli esponenti PD; quel che non conta assolutamente nulla comunque è il fatto che le battaglie sulle cifre di adesione costituiscono un mero gioco fra le parti che possono rasentare il ridicolo (a seconda dei casi una piazza – che sia Circo Massimo o San Giovanni - può contenere un numero di persone significativo o la sua decima parte).

Quel che conta invece è il fatto politico che rappresenta (come altre nel recente passato hanno rappresentato) un fatto politico di rilievo e soprattutto la conseguenza che questo può avere sul piano pratico e concreto.

Quel che è evidente è l’atteggiamento – irritato ed infastidito – della maggioranza, partendo dal suo leader, che minimizza ed aggredisce reagendo agli attacchi dell’opposizione, rispondendo per le rime con l’intenzione quindi di consolidare l’ampio consenso di cui sembra godere.

Chi governa questa forte novità politica ha una grande opportunità da giocare e sarà bene non si attardi più di tanto in queste schermaglie perché la manifestazione di Roma deve essere un punto di partenza, come lo sono state le Primarie nell’ottobre 2005 per la elezione del leader dell’Unione – Prodi e le Primarie dell’ottobre 2007 per la elezione del segretario – Veltroni – del neonato PD.

Intendo dire che come nel recente passato questi citati eventi hanno costituito la base per la costruzione di un nuovo progetto politico, anche questa volta, con modalità diverse dovrà avvenire qualche cosa di analogo.

Nel 2005 con Prodi si è costruito un progetto – l’Unione - da utilizzare nell’elezioni del 2006, ma il progetto non ha dato i risultati sperati, generando una ampia alleanza, ma non maggioritaria e per di più piuttosto disarticolata; questo ha prodotto la sua implosione.

Nel 2007 la nascita del PD aveva anche l’obbiettivo di semplificare e quindi consolidare la stabilità della maggioranza di governo; in realtà questo ha un po’ spaventato i partiti minori che hanno preferito curare il loro particolare, non capendo il pericolo che stavano correndo: infatti con le elezioni anticipate sono stati sostanzialmente liquefatti dall’elettorato.

Il PD invece ha retto anche se il suo recupero di consensi era un obbiettivo ambizioso, ma per nulla facile.

Quello che ha insegnato il cambio di governo e di maggioranza è che per l’elettorato i programmi contano di più delle alleanze nel senso che le alleanze devono essere al servizio del programma e non viceversa, poiché questo significherebbe (ce lo insegna anche il governo Berlusconi II e III) uno sviluppo del programma di governo in modo ondivago cioè contraddittorio e molto spesso inconcludente.

In effetti è già difficile e complicato governare, ma se poi ogni componente della coalizione pretende di piantare la propria bandierina ecco che il risultato che ne esce può risultare un ectoplasma incomprensibile e inattuabile o inefficace.

Questa è stata la mossa vincente del Centrodestra sul Centrosinistra anche se la sua azione di governo sta dimostrando sempre di più i suoi limiti perché in qualsiasi settore intervenga inserisce cambiamenti estremamente discutibili o inefficaci.

Non c’è settore dove il governo in carica sia intervenuto o intervenga in modo approssimato, contradditorio o chiaramente nell’interesse di pochi, non certo della grande maggioranza (si parla del 70/72% !) di consensi di cui si pavoneggia.

Con l’Ici, invocando un principio di non tassazione sulla proprietà di prima casa, si è fatto un grande regalo – con il suo azzeramento – ai ceti più ricchi; con la robinwood tax si vorrebbe finanziare i ceti più deboli una nuova tessera annonaria, ma per il momento ha prodotto una minor diminuzione dei prezzi dei combustibili (per le banche staremo a vedere quali saranno gli utili – eventuali – del secondo semestre 2008 ).

Su Alitalia, dopo il guazzabuglio iniziato nel periodo elettorale, la storia non è ancora finita: ci sono da sciogliere i nodi sorti con le valutazioni della UE sul prestito ponte e si prefigura una alleanza internazionale con vettori di peso, alleanza che con la scelta dell’italianità si voleva evitare.

Potremmo continuare su tanti altri temi dove le soluzioni – al netto degli slogan lanciati da vari pulpiti (Berlusconi, Brunetta, Maroni, ecc) - mostrano la loro limitatezza e soprattutto il vero reale obiettivo: privatizzare tutto, alleggerire il peso dello stato su tutto, e lasciare al privato l’iniziativa anche nei settori sensibili come l’istruzione.

Qui si innesta, se ben condotta, l’azione politica che esce dalla manifestazione di Roma non certo per sostenere uno stato centralista, ma trovare soluzioni eque per tutti.

Poiché la maggioranza è ben solida - e tenterà di tutto per dimostrare il suo decisionismo –

l’opposizione dovrà reagire non solo denunciando, non solo creando alleanze su ogni singolo punto solide, ma dovrà proporre alternative da divulgare con tutti i mezzi, fra l’opinione pubblica e nelle istituzioni.

E’ e sarà certamente una rincorsa faticosa e difficile, ma è l’unica strada – ricercando minimi comune multipli – per denunciare i veri obbiettivi di questo governo che dietro l’acclamato principio di risparmiare, di razionalizzare, di dare ai poveri togliendo ai ricchi, vuole stravolgere la struttura dello stato favorendo in realtà una elite dove i poveri saranno sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi, mentre la middle class si sta progressivamente liquefacendo.

In questo momento di crisi finanziaria ed economica mondiale la maggioranza in carica sta agendo con nonchalance in difesa delle banche e dei risparmiatori e si prepara a soccorrere le imprese, ancora una volta disinteressandosi di milioni di lavoratori (dipendenti ed autonomi) e di pensionati.

E’ veramente singolare: si vuol privatizzare lo stato e si vuol nazionalizzare – anche se temporaneamente – il privato !

Sulla difesa del risparmio non dobbiamo farci prendere per il naso per l’ennesima volta: in 20 anni di inflazione galoppante a due cifre il risparmio è stato falcidiato, poi è stato – anche se in modo meno generalizzato – eroso dal collocamento di obbligazioni Cirio, Argentina e Parmalat ed oggi con i prodotti “strutturati” scopriamo clausole sorprendenti che rischiano di lasciarci con un pugno di mosche in mano.

Bene quindi gli interventi, ma vanno accompagnati da regole e penalità perché chi ha sbagliato paghi e perché in futuro simili vizietti non debbano più ripetersi.

Sull’andamento dell’economia poi che si sta velocemente avvicinando a tempi di deflazione e stagnazione si preannunciano tempi duri, forieri di forti sacrifici.

Ebbene se si preannunciano tempi grami la cinghia la debbono tirare tutti e chi può deve metter mano al portafoglio: troppo comodo chiedere moderazione salariale (anche qui cercando di scompaginare i rapporti tra le principali centrali sindacali) e dall’altro trovare risorse a sostegno dell’impresa.

Il PD e i suoi – spero – alleati hanno una grande opportunità oggi: quella di incidere da minoritari sulle scelte del governo per evitare derive economiche pericolose per gli italiani (tutti), grazie anche alla disomogeneità del quadro politico europeo ed americano (soprattutto).

Questo non solo e soltanto per creare una futura forza politica di governo, ma per evitare errori e scelte delle quali dovremmo tutti – sostenitori di maggioranza ed opposizione – pentire prossimamente e amaramente (“deregulation” su Kyoto per l’Italia).

Ci si lamenta perché calano i consumi interni, ma i prezzi rimangono ben alti: delle due l’una o si aumenta il redito disponibile dei consumatori o si calano i prezzi (succede così anche per il petrolio dove il profitto rimane anche se il prezzo cala per la flessione della speculazione e dei consumi e nonostante l’apprezzamento del dollaro).

giovedì, ottobre 23, 2008

DALLA CRISI FINANZIARIA ALLA CRISI ECONOMICA: LE RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA

Occorre innanzitutto dire che la crisi finanziaria negli U.S.A. è scoppiata perché la Finanza si è sempre più sviluppata in questi ultimi anni in modo autoreferenziale, slegata cioè dall’ Economia reale attuando la deregulation tanto cara a Bush e ai suoi predecessori illustri come Reagan (e la Thatcher nel Regno Unito) che puntava sulla più alta libertà di manovra e azione, quasi a significare che questo sistema fosse in grado di ritrovare al suo interno capacità di auto controllo.

A questo va aggiunto il rallentamento e ripiegamento dell’ Economia americana che, come ovunque, ha andamenti ciclici, per cui si è prodotto un risultato esponenziale che somma gli effetti negativi della prima con quelli della seconda.

In un Mercato globale è evidente che questo fenomeno ha decisi effetti su tutte le altre economie (pure la Cina, il cui Pil cresce meno degli anni passati) per cui, come un virus, la crisi finanziaria e quella economica si trasmessa è con effetti che sembrerebbero analoghi se non (speriamo) identici.

Le cause della crisi finanziaria hanno influenzato il sistema europeo dove le regole peraltro sono più stringenti, ma dove esistono, è bene precisarlo, comunque errori e vizi domestici.

Anche qui infatti la Finanza – se pur con maggiori vincoli – ha offerto strumenti nuovi in modo generalistico confidando che la concorrenza consentisse l’auto apprendimento da parte di imprese e risparmiatori.

Non è così: la realtà ha dimostrato che ai prodotti sofisticati di raccolta o di impiego non corrisponde assolutamente una adeguata e correlata conoscenza da parte dei risparmiatori, degli imprenditori e delle famiglie che possono aver utilizzato per la scelta il sistema comparativo, ma hanno molto spesso non percepito i rischi potenziali connessi.

Infatti oggi molti risparmiatori, famiglie ed imprese (compresi gli enti pubblici) sono spaventati dalla loro situazione finanziaria che evidenzia criticità che nemmeno hanno ipotizzato al momento della scelta e che il sistema del credito non ha molto spesso lasciato trasparire (non potendo peraltro prevedere tutti i casi che il futuro potrebbe riservare).

Intendo dire che chi “gioca” in borsa direttamente sa perfettamente che rischi può correre, ma quando ad un risparmiatore, ad un impresa, ad una famiglia (o ad un ente pubblico) viene proposto un prodotto strutturato, questo presenza componenti complesse e complicate che non sono facilmente comprensibili e danno risultati diversi da quelli attesi in una situazione di andamento lineare dell’economia e della finanza; figurarsi poi quando economia e finanza sono sottoposte a shock: i risultati si possono rivelare drammatici e senza protezione alcuna.

La crescita economica sta rallentando sempre di più e la prospettiva, purtroppo, è addirittura di una sua regressione già negli U.S.A. e prossimamente in Europa, accelerata, come detto, dalla crisi finanziaria.

In questi contesti la responsabilità della politica sono enormi perché non è la prima volta che emergono crisi sia finanziarie che economiche (anche se non di questa portata), ma una volta superati i punti critici proprio la politica si è disinteressata di questi problemi, non completando l’opera di regole e programmi che ci potessero meglio mettere al riparo da future e possibili nuove crisi.

Negli U.S.A. l’economia ha cominciato a fornire segnali di ripiegamento alla fine del secolo scorso (secondo mandato Clinton) ed infatti al cambio di presidente (novembre 2000) la recessione era decisamente in atto ed ha messo a nudo la fragilità della new economy che sul piano finanziario ha presentato conti assai salati ed ha influenzato anche la Finanza europea .

In quel periodo, in Europa, la crisi economica è avvenuta qualche anno dopo, ma con andamenti difformi: ha colpito infatti di più Germania, Francia e Italia e molto meno Spagna e Regno Unito, ma le azioni politiche dei paesi in regresso si sono concretizzate in modo diverso; addirittura l’Italia ha semplicemente (2001-2006 con il IV Governo Berlusconi) cavalcato l’onda senza sviluppare un nuovo progetto di politica economica.

Dopo questa epoca economia e finanza hanno ripreso la loro crescita anche se in modo disatricolato visto che gli Usa sono cresciuti molto meno dell' Europa e questo ha prodotto lapprezamento dell'Euro sul dollaro.

In Italia pur in assenza di una politica economica è stata l’impresa nel suo insieme che ha trovato la capacità di adeguarsi e sfruttare – anche troppo – l’opportunità data dal rallentamento dell’economia (fino al 2005): i produttori di “bottoni” aggrediti dal l’import cinese si sono trasformati in produttori di macchinari per la produzione di bottoni e l’export è aumentato pur dovendo misurarsi con un dollaro sempre più svalutato, puntando su prodotti di qualità.

Già, proprio così: la mancanza di una nuova politica economica ha consentito una colossale redistribuzione di ricchezza accentuando le differenze economiche fra gli italiani (gettando sull’incolpevole Euro tutte le responsabilità) ed oggi alla vigilia di una nuova, ciclica, crisi economica quel che non si è voluto fare a suo tempo presenta un conto salato comprensivo di interessi.

Del resto oggi sul piano finanziario sta avvenendo proprio questo: l’amministrazione Bush e quella Ue stanno mettendo in campo azioni che costano qualche trilione di euro per riparare i danni commessi dalla finanza “creativa”, ricreare fiducia e tutela del risparmio; non sono operazioni da poco sia per l’entità sia per il modo, visto che sta avvenendo una – se pur temporanea – nazionalizzazione delle banche dei principali stati liberisti (Usa, Regno Unito, Germania, Francia).

A questo vanno aggiunte anche le azioni per frenare il rallentamento, la stagnazione dell’Economia, azioni che sembrano però essere delle semplici toppe, del tutto congiunturali e molto poco strutturali (soprattutto in Italia).

Non si sente infatti parlare di nuove regole nel cui perimetro può e deve agire la Finanza: la deregulation ha permesso porcherie gigantesche, ma non si sente parlare di nuove “regole del gioco” e questo significa che, una volta passato il maltempo, non siamo assolutamente al riparo da nuovi, futuri sfracelli.

Un passo determinante ed utile in questo senso sarebbe quello di attribuire alla Ue non più e non solo funzioni di coordinamento, ma un vero e solido strumento di governo comunitario che imporrebbe però ai singoli stati aderenti di trasferire l’autonomia alla quale non vogliono rinunciare.

Addirittura in questi giorni si assiste a dichiarazioni decisamente inopportune poiché rischiano di innescare fraintendimenti da parte dell’opinione pubblica; mi riferisco ad interventi del Presidente del Consiglio italiano relativi agli indici di solidità delle banche italiane che divulgati a borsa aperta risultano assai pericolosi per il regolare svolgimento delle trattazioni.

Questo tema va affrontato, se necessario con cautela e riservatezza e vanno prese iniziative - se necessarie - tempestive, ma non vanno certamente fatti proclami, soprattutto quando si è appena stabilito un programma di supporto del Governo – illimitato – in caso di necessità comprovata.

Sul piano economico si parla di sostegni all’industria (auto), di incentivazioni di tutti i tipi, ma questo dimostra che non vogliamo far tesoro delle esperienze (dei danni) del passato per favorire un miglior futuro: la flessione dell’economia deve essere utilizzata come una opportunità, per creare aggregazioni e sinergie, per ricercare efficienza, per attuare trasformazioni di processo e di prodotto.

Eppure il recente passato ha dimostrato che stimolare la ricerca di nuove soluzioni rifiutando aiuti di stato (peraltro vietati dalla Ue) ha dato risultati: la Fiat ad esempio ha invertito il suo declino ed oggi si presenta vaccinata, meglio di altre case automobilistiche, in questa fase di stagnazione del settore.

In altri settori come quello aeronautico, con Alitalia invece si è voluta ricercare una formula a tutti i costi “protezionistica” (per motivi elettoralistici), ma già in questi giorni sta mostrando i suoi limiti con la ricerca di alleanze con partner industriali sempre più obbligate e vengono pure colpite dalla Ue le ultime azioni, poste in essere per tenerla in aria (prestito ponte trasformato in mezzi propri).

Emerge per contro la paura che nella economia europea ed italiana si possano inserire iniziative finanziarie straniere (fondi sovrani), quasi si temesse un neo colonialismo al contrario.

E’ certamente un fenomeno, teorico, da non escludere, ma caso mai si possono predisporre regole di accesso e di vincolo per governarlo, utilizzandone i vantaggi: del resto si tratterebbe di grandi flussi finanziari che ritornerebbero al mittente.

Sempre sul piano economico, in Italia, poi assistiamo ad azioni difensive sul programma europeo di risparmio energetico e riduzione dei gas.

Si pretenderebbe un attenuamento ed allungamento del programma studiato da tempo, per poter sostenere indirettamente la capacità produttiva e quindi l’economia, nascondendosi al fatto che gli investimenti in questo settore e per questi obbiettivi, sono ancora e invece grandi opportunità non per produrre meno, ma per stimolare a produrre meglio ed in modo diversificato.

Ci sono imprese che da anni – intervenendo sul risparmio energetico e gestione dei rifiuti – hanno costruito il loro secondo business (accanto a quello principale); ci sono aziende come la Fiat che da un quarto di secolo progetta le sue autovetture pensando anche al loro smaltimento quanto andranno in rottamazione (la prima fu la storica Panda).

Voler pensare di allentare le briglie quindi apparentemente sembra voler dare un vantaggio, ma in realtà si favorisce una minor attenzione al problema energetico e dell’emissione dei gas (che deriva soprattutto dalla produzione di energia), togliendo e diminuendo il senso di responsabilità sociale che deve interessare tutti i fattori produttivi.

Caso mai, su questo tema come su altri, occorre vigilare con molta attenzione affinché non vengano scaricate sugli indifesi e sui soggetti economicamente pi fragili le scorciatoie, per non metter mano al proprio ingegno ed al proprio portafoglio.

Di esempi ne abbiamo molti, ma uno su tutti tocca un po’ tutti noi: i sempre più numerosi rapporti di lavoro “flessibili” sono nei fatti stati trasformati in rapporti di lavoro “incerti”; questo ha influito poco sulla crescita del nostro Pil (la produzione è meno efficiente e di quantità) ed i redditi di lavoro derivanti non consentono per quantità e stabilità una crescita armonica dei consumi soprattutto di beni durevoli.

Concludendo la situazione critica finanziaria ed economica va governata con intelligenza e logica, senza cedere al desiderio di voler avvantaggiare o proteggere i più forti o ingraziarsi parte dell’opinione pubblica; diversamente ci troveremo, ancora una volta in un gioco delle parti, dove ufficialmente ci si strapperà le vesti o si mostreranno i muscoli, ma in realtà cambiamenti radicali non ce ne saranno e dovremo attendere la prossima futura crisi finanziaria ed economica per contare i danni e sproloquiare – ancora una volta – sui rimedi.

sabato, ottobre 04, 2008

FEDERALISMO FISCALE: CI VORREBBE SAN TOMMASO

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge sul federalismo fiscale con una presentazione ad effetto da parte del Ministro Tremonti insieme alla nutrita squadra di Ministri (Calderoni, Fitto, ecc.), ma con la felicità misurata di Bossi (“bene, ma ora niente scherzi) e con Pd ed Udc che parlano di scatola vuota.

Lo stesso Tremonti dice che ora la palla passa al Parlamento per la sua discussione ed approvazione e soprattutto che occorreranno i decreti attuativi per i quali il Parlamento si dovrà impegnare nei prossimi due anni; aggiunge inoltre che l’entrata in vigore, effettiva, del federalismo fiscale ci vorranno almeno 5 anni e gli effetti tangibili e concreti li vedremo nel quinquennio successivo.

Tanto per essere realistici quindi siamo alla “posa della prima” pietra, importante certamente (se non si comincia non si finirà mai), ma ora l’importare è capire e verificare come questo progetto si concretizzerà nei fatti.

Una considerazione di premessa sull’iniziativa: penso che questo progetto sia dettato non solo e soltanto per attuare una parte della Costituzione, ma soprattutto perché, non potendo smontare l’anacronismo delle Regioni a statuto speciale (che avevano una logica al momento della nascita della repubblica), si è pensato bene di farne nascere altre 16, mettendo il cappello del federalismo.

Si sono introdotti poi dei concetti o degli obiettivi per attuare questo federalismo, ma non è assolutamente vero che, automaticamente, questi possano essere raggiunti.

Responsabilità fiscale degli organi locali
Innanzitutto la responsabilità si sposta da Roma ai capoluoghi di Regione quindi si avvicina molto di più alle comunità, ma non affatto vero che questo significhi maggior controllo da parte delle popolazioni sul buon governo regionale e delle altre amministrazioni locali.

Decentrare quindi la capacità impositiva agli enti locali che trasferiranno poi una quota allo Stato centrale per sostenere le sue funzioni e alle regioni che sono in difficoltà non significa assolutamente spender bene le risorse prodotte in ogni regione.

Rispondere direttamente al proprio elettorato è una enunciazione di principio, ma non è necessariamente automatico che un malgoverno significhi bocciatura: di esempi ne vediamo spesso eppure non ci sono sempre bocciature conseguenti, anzi è più facile vedere un cambio di cavallo, con il mantenimento però della stessa coalizione di governo, e dello stesso livello di inefficienza.

Quando si vota – parliamoci chiaro – non è solo il buon governo che premia, ma entrano in gioco molte altre componenti anche del tutto legittime.

Caso mai avrà molta più efficacia, per spender bene e pure risparmiare (eliminando sacche di improduttività o prezzi pilotati come nella Sanità), se usato con sapienza, l’applicazione del principio che per l’incremento della spesa non si debba più far riferimento alla spesa “storica”, ma alla determinazione dei migliori prezzi per servizio.

Questo caso mai è il grosso lavoro da fare, sul quale potranno nascere “assalti alla diligenza” da molte parti perché significherà mantenere inalterati – se non migliorati - qualità e quantità di servizi alle comunità spendendo meno del passato.

La difficoltà, è bene dirlo, non verrà solo dai privati che forniscono servizi, ma anche e soprattutto dalle municipalizzate (che sono amministrate da eletti dagli enti locali) che continuano ad operare in regime di monopolio e che faranno opposizione quanto verranno messe a confronto tra di loro.

Solidarietà fra Regioni
E’ il tema forse più delicato poiché è direttamente legato al diverso sviluppo economico tra le Regioni e quindi al diverso livello di reddito e ricchezza.

Solo sei regioni (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Piemonte e Toscana) spendono meno di quanto incassano, ma se andiamo a vedere la spesa pro capite ecco che le Regioni che spendono meno sono Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia.

Ciò significa che le Regioni che producono più Pil si possono permettere maggiori spese (a parte il Veneto virtuoso che spende quanto la Sicilia), mentre le altre, per non sentirsi in debito in via perpetua, dovranno inventarsi qualche cosa per raggiungere la ricchezza delle altre regioni.

Qui sta il busillis: l’alternativa è economizzare (ma come ) oppure aumentare la pressione fiscale accelerando una spirale involutiva.

Di questo annoso problema – lo sviluppo economico disomogeneo dell’Italia – non se ne parla e non se ne può parlare nella legge sul Federalismo fiscale, quasi a significare che altre sono le funzioni dello stato che si devono occupare di questo.

Questo Governo ( ma per la verità anche i precedenti visto che di federalismo se ne parla da almeno 15 anni con i primi timidi atti del primo Governo Prodi) non sembra preoccuparsene se non con enunciazioni di principio - il Mercato se possibile, lo Stato se necessario (Tremonti) - ma senza lasciare nemmeno trasparire iniziative che portino alla crescita queste regioni.

Già: il problema non è semplice perché molte sono le cause (“la questione meridionale” si trascina ormai dall’unità d’Italia) e molte dipendono dall’inefficacia dei governi susseguitisi dal dopoguerra che non sono riusciti a rimuovere le cause, soprattutto, sociali che hanno appesantito, come piombo, queste economie.

Autonomia impositiva per tasse e tariffe

E’ il principio forse più preoccupante per gli italiani perché se da un lato l’obbiettivo è quello di spender meno e meglio, esiste pur sempre questa valvola da aprire che stravolgerebbe l’impianto di questa legge.
E’ un aspetto questo appena sfiorato nella presentazione, ma che è stato anticipato da interventi vari nelle scorse settimane (quando si trattava di reintrodurre l’Ici o tassa equivalente che riassumesse molte tasse e tariffe locali) e che preoccupa non poco gli italiani.

Una cosa infatti è sostenere la tesi che ognuno cerca di spender al meglio quanto frutta il prelievo fiscale (destinando comunque una quota a stato e regioni più povere), altra cosa è dire maggior tassazione (o tariffe) a chi vuole maggiori e più qualificati servizi.

In questo senso gli italiani sanno benissimo che non ci sono limiti alle fantasie degli amministratori locali o delle municipalizzate (l’ultima è a Ravenna che vuol far pagare l’acqua piovana) e che soprattutto queste si trasformano sempre in maggiori costi per i contribuenti, mai nel contrario.

Il mio atteggiamento sul federalismo fiscale è quindi di scetticismo misto a prudenza: staremo a vedere.


giovedì, settembre 18, 2008

TELECOM ITALIA : SEMPRE ALLA RIBALTA

In questi giorni ritorna a galla un vecchio progetto di riassetto della compagnia che riguarda in particolare lo scorporo, in società ad hoc, della rete sia fissa che mobile.

A mio modo di vedere non è, per l’Italia, un fatto né irrilevante né tutto interno a Telecom stessa, perché sulla struttura della telecomunicazioni si può giocare lo sviluppo più o meno veloce dell’economia italiana che riguarda quindi tutti noi.

Parto dal fatto che l’infrastruttura delle telecomunicazioni (banda larga, fibra ottica, ecc.) è si un fatto interno alla Telecom, ma è un fatto di pubblico interesse poiché i maggiori o minori investimenti hanno ovviamente diretto riflesso sullo sviluppo e modernizzazione del paese (né più né meno della rete stradale ed autostradale).

E’ altrettanto vero che la modernizzazione della rete è un affare che produce necessariamente costi ed investimenti non da poco e che lo sviluppo della rete viene già da ora utilizzato da altre compagnie telefoniche di tutto rispetto, per cui non è pensabile che Telecom debba e possa portare da sola l’onere di questo sviluppo che comporta maggiori impegni finanziari, se pur attenuati, nel tempo, dal ritorno economico per l’uso che gli altri concorrenti faranno di una rete più moderna ed efficiente, oltre che dallo sviluppo del proprio fatturato.

In questo senso la privatizzazione di Telecom avvenuta nel 1996 anni fa ha fallito, ma non poteva esser che così poiché non era prevedibile lo sviluppo vertiginoso che il comparto ha avuto in questi anni e per il fatto che l’imprenditoria privata – a parte forse il periodo gestito da Roberto Colaninno – ha pensato a sviluppare il core business del momento senza guardare all’orizzonte (vi ricordate il “nocciolino “duro di controllo di Fiat con il suo 2% ?).

Il governo uscente – o qualche suo esponente - ha timidamente preso in esame questo tema, ma subito è nata una caccia all’untore perché nell’agone politico tutto – anche uno starnuto – è utile per attaccare o indebolire l’avversario ed in questo caso la fragilità della coalizione di riferimento e l’efficacia mediatica dell’opposizione ha messo a tacere brutalmente qualsiasi analisi sul tema (tutto perché l’idea non è venuta in mente prima a loro).

Inoltre l’idea di scorporo – nel 2006 – nata all’interno di Telecom stessa era essenzialmente funzionale ad una ristrutturazione finanziaria della compagnia alla stessa stregua di ipotesi di cessione di partecipazioni estere che contribuissero a ridurre il debito divenuto troppo oneroso, ma scaturito non da investimenti tecnici – magari inopportuni o eccessivamente onerosi – ma dagli impegni assunti per l’acquisto della compagnia stessa.

Se ricordate infatti quando nel 2001 subentrò la proprietà Pirelli tramite Olimpia, successivamente, con una serie di operazioni di incorporo, il debito di acquisto fu trasferito dentro Telecom Italia e gli eccellenti utili operativi della società costituirono la fonte di rimborso del debito, ma non la fonte per ulteriori investimenti tecnici.

Resta il fatto che nel 2006 , di fronte alla volontà della società di scorporare le reti (da inserire in società ad hoc da quotare in borsa) e risolvere i problemi della Telecom ed anche di Pirelli, l’ipotesi analizzata da Roversi di trovare una collocazione della proprietà in società controllata dallo stato (Cassa Depositi e Prestiti) e finalizzata però allo sviluppo della rete nell’interesse del paese, non era poi cosi tanto peregrina.

Resta il fatto che la cosa non fu capita anzi violentemente avversata, ma la proprietà di Telecom trovò comunque una risoluzione ai suoi problemi: Olimpia vendette alla neonata Telco spa la sua quota di controllo (oltre il 23% ) concludendo tra l’altro un ottimo affare.

La Telco peraltro è controllata da alcuni importanti imprese finanziarie italiane (Mediobanca, Generali, Intesa San Paolo, Benetton, ecc), ma soprattutto da Telefonica, la compagnia telefonica spagnola (con la quota di maggioranza relativa).

Questa operazione ha salvato l’italianità di Telecom, ma questo principio è assai fragile perché è sufficiente un cambiamento della compagine sociale, magari imposto da necessità legate alla crisi finanziaria in atto, a nuove strategie di sviluppo o all'operazione di scorporo stessa ed ecco che l’italianità – tanto sbandierata in questi giorni in altri campi – andrebbe a farsi benedire.

L’idea dello scorporo delle reti in questi giorni sta comunque riemergendo è si ha la netta impressione che l’idea nasca sempre per alleggerire il debito in collo a Telecom che per progetti di più alto profilo e le prospettive di realizzazione non sono per nulla semplici.

Tra l’altro la società proprietaria delle reti andrebbe quotata in borsa e verrebbe sollecitata pure l’entrata di fondi ed altre imprese della finanza internazionale.

Telefonica non ha interesse ad avallare una operazione del genere innanzitutto perché controllerebbe una Telecom più leggera (di debiti, ma anche di infrastrutture tecniche) e poi per il fatto che analoga operazione le potrebbe essere richiesta in patria.

Obbiettivamente non ritengo che non faccia nemmeno piacere a tutti noi il sapere che il nostro apparato di telecomunicazioni andrebbe in mano anche a soggetti certamente qualificati ma sconosciuti.

Ora ben sapendo che negli affari tutto è possibile se lecito, e che quel che non si poteva fare un tempo, lo si può fare invece oggi, sarebbe bene che l’attuale governo non abbia reticenza a riprendere in mano vecchi progetti, vecchie analisi e dimostrare la sua capacità a ricercare tutte le forme di modernizzazione – reale – del paese.

Intendiamoci bene: entrare nell’argomento infrastrutture telefoniche significa affrontare questo tema nell’esclusivo interesse del paese e del suo futuro, ben sapendo che oggi la situazione è ben più complicata di quella di due anni fa.

C’è infatti oggi un socio straniero (tra l’altro concorrente di Telecom) che non sarà facile “addomesticare” e socio italiani di peso la cui missione non è il core business di Telecom per cui vanno sollecitati precisi orientamenti per lo sviluppo – economicamente conveniente – delle infrastrutture telefoniche utili e sempre più necessarie al paese.

Diversamente se intervento non ci sarà o se questo non sarà funzionale agli interessi della collettività, ancora una volta avremo il riscontro delle finalità che questa politica si propone: l’interesse di pochi contro quello dei tanti.

mercoledì, settembre 17, 2008

LE INVERSIONI O LE CONVERSIONI DEL MINISTRO TREMONTI

Ieri sera all’intervista del Ministro Tremonti sul TG1 delle venti da parte di Gianni Lotta, sono rimasto a bocca aperta non per quanto dichiarato sulla crisi finanziaria che sta abbattendosi sui principali colossi nordamericani soggetti (Lehman Brothers, Aig, Merril Linch, ecc), quanto sulle cause denunciate candidamente.

Sostiene Tremonti che questo dipende dal fatto che l' economia mondiale (e quella Usa che ne è buona parte) è molto spesso influenzata da una finanza “di carta” per cui o prima o poi le magagne vengon fuori e presentano conti severissimi anche a soggetti alto lignaggio.

L’economia vera invece è quella manifatturiera (anche quella a basso prezzo prodotta dai paesi del sud est asiatico acquistata dagli americani indebitatisi in modo sconsiderato ) ed in Europa i paesi che poggiano su questo “fondamentale” sono – nell’ordine - Germania, Italia e poi via via gli altri.

Nulla da dire sull’analisi perché è già la seconda volta – in pochi anni - che la finanza di carta produce danni ingenti: è accaduto nel 2000 (con la bolla speculativa) e riaccade oggi (anche se non sappiamo ancora quali saranno gli effetti definitivi).

Per inciso: avete notato che i momenti di flessione nell’economia americana coincidono con i cambi obbligati del Presidente ? Oppure dobbiamo registrare che quella economia ha un andamento ciclico di otto anni ? Teniamone conto per il futuro.

Certo è che il Ministro Tremonti –con quel suo modo saccente – non ci può prendere in giro in questo modo spudorato lanciando – sapientemente – slogan ad effetto per gonfiare la credibilità di questa maggioranza quando dice che la vera economia è quella manifatturiera che poggia sul capitale e sul lavoro mentre quella di carta è solo l’appariscenza degli alti palazzi a vetri e specchi che quando crolla mette per strada la povera gente.

Complimenti, sembra quasi un Che Guevara del nuovo secolo !

Ma la spudoratezza stà proprio nell’affermare questi concetti che sarebbero condivisibili se detti in buon fede, mentre il suo passato ed anche il suo presente dimostrano proprio l’opposto.

Nel 2002 propose – senza riuscirci - cartolarizzazioni di beni immobili dello stato utilizzando anche la leva del crescente valore cauzionale dei beni cartolarizzati; cosa vuol dire questo: che ha proposto – per far cassa – la cartolarizzazione – non la vendita - di immobili cercando di sfruttarne al massimo il valore commerciale, cresciuto nel frattempo per effetto della crescita del mercato immobiliare. (cartolarizzare significa cedere il diritto reale sul bene riaffittato al venditore che diventa affittuario, che paga in base al valore commerciale gonfiato; ma poi quando il valore scende l’affitto resta sempre lo stesso con evidenti perdite latenti).

Questa, in piccolo, non è altro che l’operazione fatta da tanti soggetti finanziari americani – ora in enormi difficoltà – che hanno rifinanziato il debito degli americani sfruttando la crescita del mercato immobiliare, non tenendo conto che nella vita esiste il bel tempo, ma anche quello pessimo: il mercato immobiliare si è ridimensionato (e quindi il valore cauzionale dei beni a garanzia del debito mutuato è sceso sotto il valore del debito esistente) e l’economia americana si è pure ridimensionata, per cui i debitori non avevano e non hanno più la capacità di rimborso originaria.

I crediti derivanti dai tutti questi mutui sono stati cartolarizzati ed inseriti in prodotti finanziari strutturati di risparmio, decuplicando l’effetto delle operazioni sottostanti; nel momento in cui queste si sono ripiegate ecco che il castello di carte è crollato.

Va ricordato infatti che qualsiasi economia gira bene se – come si dice – “gira il mattone”, ma se la crescita viene drogata poi l’onda di ritorno può avere effetti paragonabili a quelli di uno tsunami.

Un’altra regola aurea è che alla capacità di debito deve corrispondere la capacità di risparmio: questa regola negli Usa è stata sempre disattesa poiché il popolo americano ha una altissima propensione al debito, ma è il popolo meno risparmiatore della terra.

Continuando su Tremonti ora si è inventato “l’economia sociale di mercato”.

Che cosa vuol dire ?

Il mercato – che è ormai globale - continua a regolare le economie per cui l’azione politica del governo in carica va in questo senso; ciò significa che sollecita, o crea le condizioni, affinché qualsiasi iniziativa possa generare ricchezza, mafari semplificando, togliendo lacci e lacciuoli,ma nel caso in cui qualcuno resi indietro e non ce la faccia, ecco che intervengono strumenti di sostegno per lavarsi la coscienza.

Libero mercato quindi, ma non pari opportunità.

E questa azione si vede in qualsiasi azione del Governo in carica dove l’opinione pubblica acconsente spesso in grande maggioranza, ben sapendo che comunque a pagare sarà sempre pantalone (confidando che pantalone sia sempre il suo vicino naturalmente).

Se ricordate Tremonti e il suo capo Berlusconi montarono una campagna indecente contro l’entrata dell’Italia nell’euro chiosando sul taglio delle monete e sui livelli di cambio lira-euro; la strumentalità è dimostrata dal fatto che nella crisi attuale questa fandonia non riemerge, anzi si afferma che l’Europa e l’Italia sono fuori da questa crisi anche perché il sistema di controlli delle economie europee sono molto più efficienti ed efficaci di quelli americani.

Si plaude quindi all’azione della Bce che ha applicato regole ferree antiinflazionistiche, che ha istituito decisi controlli sull’azione bancaria, la stessa Bce che ha governato la scesa in campo dell’euro, con tutti i vantaggi e svantaggi del caso.

Ma non è finita qui: dal 1996 la discesa dei tassi ha consentito un aumento vertiginoso di acquisti di case da parte delle famiglie italiane (si diceva una rata del mutuo costa quanto un affitto) e la cosa è proseguita per 10 anni senza sussulti; poi la crescita della economia europea a un lato e la diminuzione di quella Usa ha prodotto una crescita dei tassi ed ecco che emersa la difficoltà dei mutuatari a sostenere rate di mutuo a tasso variabile (è evidente che in momenti in cui i tassi di riferimento erano del 2- 2,5% nessuno andava a prendere mutui a tassi fissi, magari trentennali).

Ebbene Bersani ha introdotto un elemento di concorrenza introducendo la portabilità dei mutui; questa norma non è obbiettivamente semplice perché va ricondotta ad ogni singolo mutuatario e a resistenze da parte delle banche (peraltro punite sonoramente con forti multe dall’antitrust), ma Tremonti, il creativo, ha introdotto un accordo con le banche per “cristallizzare” le rate ai tassi del 2006 lasciando fluttuare la durata.

Splendido: ha fatto un grosso regalo alle banche (regola aurea: al buon cliente concedi credito il più lungo possibile per incassare più interessi) e ha dato una grande fregatura alla “povera gente” che non sa quanto potrà durare il suo debito, perché nessuno sa quale sarà l’andamenti dei tassi negli anni a venire.

Perlomeno Bersani ha cercato di favorire – caso per caso – la diminuzione delle condizioni su mutui, ma con durata comunque certa.

Ancora: la manovra finanziaria del governo attuale studiata da Tremonti poggia su un principio del tutto condivisibile: ridurre la spesa (con meno si fa di più), ma nell’attuazione del programma i tagli son fatti con con la scimitarra senza cioè pensare al mantenimento di una eccellente qualità.

Si parla di fannulloni senza colpo ferire (quando Padoa Schioppa parlò di bamboccioni venne fuori una mezza rivoluzione), ma in realtà non si vuol mettere in riga chi fa le spalle tonde, bensì ridurre l’impegno dello stato nei servizi alla collettività, per trasferirlo all’iniziativa privata, senza che questo ci possa garantire però migliori servizi a prezzi più bassi (è garantito che concorrenza non se ne creerà).

Per non parlare della scuola: si afferma che la nostra è inefficiente, che deve migliorare, ma il percorso per far questo è ridurre il monte ore e tagliare occupazione in modo indiscriminato; se ci sono 80 mila insegnanti in più, non ci viene spiegato quale tipo di razionalizzazione permette di trarre questa economia: solo con il maestro unico ?, con le pluriclassi ?

Anche qui il sospetto – proprio per applicare l’economia sociale di mercato – è garantire la scolarità minima indispensabile per chi non può permettersi una scuola privata.

Proseguendo: il precedente governo aveva allestito fondi (in varie forme circa un miliardo di euro per il sostegno all’edilizia popolare, alle abitazioni per anziani, indigenti, ecc) ebbene il nuovo governo ha trasferito queste risorse non ancora spese i una nuova iniziativa: un fondo immobiliare a partecipazione pubblica e privata dove confluiranno queste risorse, oltre a quelle derivanti dalla dismissione di fabbrica di civile abitazione da vendere agli affittuari che possono riscattarli.

Apparentemente sembrerebbe una bella operazione, ma c’è un ma: lasciamo fare i fondi immobiliari (banche, assicurazioni, ecc) a chi li sa fare (e che li propone ai risparmiatori con le dovute cautele e modalità) perchè nel nostro caso, anche in una società mista, la finalità non è sarà quella di fornire alloggi dignitosi ed economici a chi non ce la può fare (pensionati, disoccupati, famiglie numerose, ecc), ma quello di ottimizzare il risultato che non può collimare con l’obbiettivo dichiarato all’inizio.

Per finire (ma di esempi ce ne sarebbero ancora a iosa) il caso Alitalia: il precedente Governo, forse in modo ipergrantista, ha allestito un’asta estenuante per il suo acquisto, ma alla fine l’unico acquirente rimasto è stato fatto scappare a gambe levate sia per l’irresponsabilità di alcuni sindacati, che per le dichiarazioni del probabile futuro Presidente del Consiglio: ha dichiarato di non accettare la nuova proprietà proponendo – per l’italianità – una cordata italiana, includendo pure i suoi figli.

Ebbene utilizzando il punto debole (i sindacati) ha fatto saltare il banco per riproporsi come salvatore della patria per prendersi il merito di aver mantenuto l’italianità (ma dov’era con le operazioni Edison e Telecom ? E che cosa dirà se scenderà in campo Airfrance o Lufthansa ?).

L’operazione dove sono saltate le principali regole (è una licitazione privata) si concluderà comunque positivamente, ma caro mi costa: per gli esuberi è prevista una mobilitazione lunga sino a 7 anni (sic!) e comunque, per la parte che non rientrerà in Cai spa già sono state fatte al commissario Fantozzi offerte del tutto interessanti ed interessate.

Questo vuol dire che il core business (come per Parmalat) è comunque valido ed interessante, ma è la struttura, i privilegi, il clientelismo, gli sperperi (comprese le liquidazioni dei vari amministratori delegati) che hanno affossato la compagnia, sulla cui rinascita pagheranno il conto più salato i cittadini ed i lavoratori (piloti in primis).

Concludendo sarà bene che il Ministro Treomonti e molti suoi accoliti e colleghi la facciano meno tronfia e soprattutto comincino una buona volta a mantenere coerenza tra il dire ed il fare poiché di fumo negli occhi siamo letteralmente stufi (nonostante le tanto sbandierate statistiche di apprezzamento oceanico o plebiscitario del Governo in carica).

domenica, settembre 14, 2008

PRESIDENTE: LA STA’ FACENDO GROSSA, QUESTA VOLTA !

Il Presidente del Consiglio che in campagna elettorale ha convinto la maggioranza relativa degli elettori della bontà della sua coalizione e soprattutto del suo programma, ha dimenticato che quando si promette bisogna avere la ragionevole convinzione di essere in grado di concretizzare quanto detto.

Le promesse non possono essere sparate cosi (come si sparano cazzate al bar) perché poi se si attuano o non si attuano i risultati non ricadono immediatamente su chi le ha fatte, ma subito, immediatamente, sul collo di chi, disarmato, non può nemmeno difendersi.

Il decisionismo promesso ed applicato e la pubblicità promessa e non mantenuta diventano quindi un grande boomerang che si ritorce contro chi l’ha fatta, decollando però, nel suo tragitto, migliaia di teste inconsapevoli ed inermi.

Non so quanto possa aver convinto in termini di voti la promessa di una cordata italiana, per confermare l’italianità e per salvare Alitalia dalla crisi, ma resta il fatto che questa promessa tanto sbandierata, sino a ipotizzare la scesa in campo dei suoi figli, ha certamente creato attese nell’elettorato, incertezze a lavoratori e sindacati e ritrosia ad Airfrance – Klm che di fronte all’incertezza politica prodotta dalle imminenti elezioni politiche( soprattutto alla diversità di posizione sul problema e la sua risoluzione) se n’è fuggita a gambe levate.

Quanto promesso sembrava a tutti noi un qualche cosa di già abbozzato (se pur segreto) per cui abbiamo atteso trepidanti che questa si concretizzasse, mentre invece abbiamo avuto tutti la sensazione che la costruzione dell’alternativa si sia messa faticosamente in movimento all’inizio dell’estate, senza che il governo in carica (a differenza del precedente che qualche paletto l’aveva messo) abbia mosso foglia: ne aveva il diritto ed il dovere perché le politiche sociali spettano al ministro del Lavoro e quelle dei trasporti al ministro Scajola.

Invece si è delegato il tutto ad una banca di tutto rispetto che facendo il suo mestiere ha trovato e patrocinato la cordata italiana, ma ovviamente senza alcun vincolo “politico”.

La velocità e determinazione del Governo si è vista solo nella modifica della Legge Marzano, utile alla nuova compagine societaria per rilevare in sicurezza quanto le tornava utile della vecchia Alitalia, ma di raccomandazioni – se non esplicite nemmeno intuibili – nemmeno l’ombra.

Si sono imposti tempi stretti (avendo pure la scaltrezza di coinvolgere imprenditori come Colaninno e professionisti come Fantozzi) e soprattutto si è ribadito – i fatti lo stanno a dimostrare – che l’elemento umano con il suo lavoro ( e le sue rappresentanze) è del tutto incidentale al progetto industriale.

Certo il costo del personale è un elemento di appesantimento dell’attuale Alitalia, ma non l’unico: ve ne sono di altri ben più pesanti come il management, le linee, i servizi, gli scali, che non hanno consentito di ricercare nel tempo economie ed efficienze.

Quanto all’italianità abbiamo visto in che cosa consisteva: la Cai ha parlato sin dal primo momento di partner industriali internazionali tanto che Aifrance – Klm si è subito riproposta, affiancata da Lufthansa e British; ma cosa pensava il Governo in carica ?

Che una nuova proprietà non pensasse ad alleanze commerciali o ancor di più a compartecipazioni ?
O a future lucrose cessioni come ipotizzato da Cai ?

Resta il fatto che ora siamo vicini al tracollo totale, con una compagnia di bandiera, dal Presidente Berlusconi tanto agognata, i cui aerei potrebbero restare a terra chissà per quanto tempo e ci si preoccupa, soltanto, della figuraccia che stiamo facendo sul piano internazionale: già, al Governo Berlusconi interessa l’Italia, non gli italiani !

Arrivati a questo punto anche un ciuco capisce che se in primavera non entravano in campo fattori di turbolenza scientificamente interessata, l’accordo con Airfrance – Klm (primo vettore mondiale) si sarebbe concluso positivamente: il marchio Alitalia continuerebbe a volare per il mondo quale componente di un network mondiale.

Non avremmo sprecato denaro inutilmente, messo a disposizione, con alto senso dello stato e su richiesta specifica del Presidente del Consiglio in carica, dal Presidente Prodi; gli esuberi, sarebbero molto più contenuti sarebbero stati assorbiti già dalle offerte di mercato (non si tratta di netturbini con tutto il rispetto, ma di piloti, stewart, hostess, assistenti di terra, tecnici di manutenzione,ecc).

Certo l’obbiettivo di creare una nuova compagnia di bandiera non si perde: si prospetta un bel fallimento dove trovare assets a buon prezzo per ripartire ed un bacino di disoccupati (in mobilità) dove pescare, mentre i restanti resteranno per qualche tempo a carico dell’Inps, quindi, giustamente, a carico di noi tutti.

Ora che la frittata rischia di esser fatta, infine, si cerca di addossare le colpe agli altri: ai sindacati che non capiscono, o alla opposizione che gufa o fa l’avvoltoio.

E’ proprio vero: un bel tacer non fu mai scritto !!

Certo, ora che la corda è ben tesa, quasi al limite di rottura,ecco che ci mette la faccia in prima persona: se andrà per il meglio dopo aver fatto sentire la sua influenza personale, ne sortirà una grande vittoria di cui pavoneggiarsi di fronte a tutti; se dovesse fallire, i capri espiatori – imprenditori compresi - sono già belli e pronti !