sabato, gennaio 26, 2008

L'ETICA NELLA STATISTICA (E NON SOLO)

mi è capitato recentemente di leggere la pubblicazione, italiana, di “Mentire con le statistiche” del giornalista americano Darrel Huff, edita e commetanta da Giancarlo Livraghi e Riccardo Pugliesi.

E’ una pubblicazione del 1954, ma nonostante sia stata scritta oltre 50 fa è ancora oggi di notevole attualità; si legge molto velocemente perché scritto in forma narrativa e vengono riportati moltissimi esempi assai gustosi nei quali cui i risultati della ricerca statistica molto spesso sono stati utilizzati per sostenere interessi di mera convenienza.

Tutto questo mi ha fatto ritornare in mente vecchie dispense ed appunti relativi al mio professore di statistica il quale – specificatamente – ci relazionò proprio sull’etica che doveva sostenere il ricercatore.

In sintesi , ben sapendo la nostra passione per i numeri e i modelli matematici, ci raccomandava e nel contempo ci metteva in guardia sul possibile pericolo di costruire analisi parziali e nello stesso tempo di dare letture anch’esse parziali.

Sosteneva a ragione che il rigore doveva essere utilizzato sia nella determinazione del modello statistico, sia nella definizione dei campioni, sia, non ultima, nella lettura dei risultati ottenuti.

Tutto questo perché se non vi fosse stato rigore si sarebbero avuti risultati falsati in modo evidente e, nella lettura dei dati ottenuti, conclusioni manipolabili e addomesticabili.

Chi legge si domanderà: è allora ?

Bene, ieri Eurispes ha pubblicato il Rapporto Italia 2008 ed ecco che escono dati in gran quantità che i media si apprestano a divulgare utilizzandoli in modo smaccatamente interessato sino a formulare affermazioni del tutto campate in aria.

Beninteso, sappiamo tutti che la situazione economica è quella che conosciamo e cioè che il pil è cresciuto del 2% nel 2007 mentre nel 2008 dovrebbe crescere solo dell’1 %; i consumi interni sono in calo sia nel 2007 sia, si prevede, nel 2008 per cui la maggior produzione di riferisce a beni e servizi esportati; l’inflazione ha percentuali modeste (2%) e la pressione fiscale si è assestata intorno al 42%.

Dai dati Eurispes invece, e soprattutto dalle interpretazioni arbitrarie escono letture che rasentano il paradossale.

Il quotidiano L’Arena “spara” questo dato in prima pagina: “20 milioni di lavoratori sono sottopagati, 1,5 sono precari e 6 milioni hanno il doppio lavoro”; bene, innanzitutto vorrei capire se il milione e mezzo e i 6 milioni vanno aggiunti ai 20 oppure ne fanno parte; in entrambi i casi comunque i conti non tornano perché gli occupati ufficiali in Italia (fonte Istat 2003) sono poco più di 22 milioni quindi sostenere che il 90% è sottopagato sembra sinceramente un po’ esagerato.

Infatti sostenere che le retribuzioni in Italia non sempre consentono una vita serena (non agiata) è certamente vero, ma sostenere che quasi tutti i lavoratori sono in situazione di indigenza è obbiettivamente una forzatura che se utilizzata lo è per scopi reconditi e non per una corretta informazione al lettore.

Anche Reuter Italia magari per “frettolosità” ne spara di altrettanto grosse: ebbene, riporta il dato Eurispes secondo il quale l’economia sommersa in Italia varrebbe circa 549 miliardi di euro, di cui 175,6 imputati all’economia criminale.

La bufala sta nel passaggio successivo quando, affermando che questa ricchezza corrisponde al pil di Finlandia, Portogallo, Romania ed Ungheria, si lascerebbe intendere, anche se non lo si dice a chiare lettere, che il pil effettivo del nostro paese andrebbe aumentato di questa enorme cifra.

In realtà non è vero perchè la ricchezza sommersa trova comunque sbocco, molto spesso, in consumi di beni e servizi anche durevoli che vengono rilevati insieme a quelli di derivazione lecita per la determinazione del Pil italiano !

Se poi tutta questa ricchezza confluisse, in parte, in risparmio ecco che questo costituirebbe ulteriore provvista per il sistema bancario italiano che potrebbe aumentare il sostegno alle imprese e alle famiglie contribuendo quindi indirettamente a generare nuovo pil del tutto ufficiale.

Con questo non intendo certamente minimizzare sia i redditi nascosti sia quelli illeciti, ma l’effetto non prodotto da questo fenomeno è il mancato gettito di imposte dirette (quelle indirette, consumando, le paga sia il lavoratore in nero che il mafioso) che, questo si, è determinante per la gestione dello stato: infatti se la ricchezza sommersa è quella rilevata mancherebbe alle casse dell’erario oltre 190 miliardi di entrate.

E’ di questo che si dovrebbe parlare più concretamente perché corrisponderebbe al totale del valore di ben 5 leggi finanziarie "pesanti"!

Sul valore espresso ho comunque - che faccia parte del pil rilevato o vada aumentato ottenendo cisì un pil reale superiore ai i 2 milardi di euro – più di un dubbio pur riconoscendo che il fenomeno dell’evasione fiscale esiste ed è grave; sostenere per esempio che il sommerso, nel primo caso – sia sostanzialmente 1/3 del pil totale vorrebbe dire che se portato ad emergere la contribuzione fiscale aumenterebbe (lo direbbe l’Eurispes) di quasi 200 miliardi e la pressione fiscale (rapporto tra il totale delle entrate ed il pil) schizzerebbe ad oltre il 60% in palese contraddizione con le aliquote delle imposte dirette che sono molto più basse (Irpeg 29% e Irpef massima 43%).

Se poi questo valore Eurispes andasse ad aumentare il pil ufficiale peggio che andar di notte: significherebbe che la pressione fiscale reale diminiorebbe drasticamente e non si comprenderebbero sia le lamentele generalizzate degli italiani ne, soprattutto, i dati riportati nel Rapporto Eurispes, circa la working poors che graverebbe come una maledizione sugli italiani.

Infatti se su 20 milioni di italiani lavoratori dipendenti ve ne sono ben 6 (giusto 1/3) con doppio lavoro (il secondo in nero) non si può sostenere che tutti e 20 siano sottopagati a meno che dall’indagine statistica si tenga conto solo di quanto dichiarato che, appunto, non corrisponderebbe ai redditi reali.

Ritornando quindi velocemente alle premesse vediamo bene che l’etica insegnatami parecchi decenni or sono potrà oggi, forse, essere ancora seguita nell’indagine statistica, ma è fuor di dubbio che la lettura e soprattutto l’utilizzo fatto è smaccatamente pilotato per scopi non di cronaca, bensì per divulgare notizie nel migliore dei casi scandalistiche.

Contestualizzando questo comportamento nel particolare momento di crisi politica scaturita dalla recente caduta del Governo Prodi balza subito agli occhi che il Rapporto Eurispes viene “piluccato” qua e la con il chiaro scopo – anche se non dichiarato –di mestare nel torbido unendo verità a fatti e dati stiracchiati o fasulli; si buttano li notizie e dati con nonscalance che ad una prima analisi possono apparire convincenti, ma nella realtà hanno il solo scopo di amplificare sensazioni più o meno reali, rafforzando le proprie convinzioni o intuizioni sul momento economico e politico del paese.

In sostanza i media ci dicono molto spesso quello che vogliamo sentirci dire perché vogliamo ricercare una conferma nelle nostre sensazioni e convinzioni ottenendo informazioni sui dati sfornati da fonti autorevoli, meglio se relative ad una indagine il più ampia possibile (si parla di milioni di italiani e miliardi di euro come fossero noccioline) che ci garantirebbe sulla sua attendibilità.

In realtà le notizie così formulate e divulgate tenderebbero – una volta manipolare ed elaborate – a far coincidere un fenomeno statistico rilevato in questo caso da Eurispes ad ogni singola situazione personale che in realtà presenta necessità ed esigenze individuali del tutto uniche (anche la sfera dei bisogni primari è diversa per sesso, età, luogo,ecc.).

Concludendo, queste mie considerazioni non intendono certamente minimizzare la situazione economica e quindi sociale in Italia e le sue prospettive, ma evidenziare che le analisi devo essere depurate dalle “interferenze” affinché le scelte conseguenti siano le migliori possibili; in questo contesto molto si dice di quanto il quadro politico abbi fatto o meno, ma non si comprende come mai in questi ultimi due anni alcuni indicatori fondamentali abbiano mostrato indubbi miglioramenti (diminuzione ulteriore della disoccupazione, aumento di immigrazione, aumento del Pil, aumento delle entrate, diminuzione del debito, crescita dell’avanzo primario, crescita modesta dell’inflazione), mentre dall’altro si sostenga l’esistenza un rapido deterioramento economico (per effetto dell'aumento dei prezzi e della pressione fiscale per circa 1 punto) così forte quasi a voler sostenere che l’aumento di ricchezza (pil) produce in realtà povertà !

L’errore a cui saremo indotti non è tanto e soltanto di fare scelte poco opportune – anche in sede di voto – quanto non vedere altri imminenti e reali pericoli di cui nessuno ci da opportuna informazione e soprattutto alcuna analisi e progetto di risoluzione (penso per esempio alla recessione nord americana che se imboccata avrebbe ripercussioni enormi sia sugli stati “emergenti” che su tutta Europa).

lunedì, gennaio 14, 2008

INVOLUZIONI DELLE RETRIBUZIONI IN ITALIA

Da alcuni anni ormai si continua a parlare delle retribuzioni (e delle pensioni) dei lavoratori dipendenti italiani che consento sempre la sopravvivenza (quarta settimana) ed lo slittamento progressivo ed inesorabile delle classi di ceto medio verso la soglia di sopravvivenza.

Le analisi della situazione e le ricette risolutive si sprecano, ma una valutazione obiettiva di come ciò possa essere accaduto non si è mai sentita.

Si fanno infatti analisi tra retribuzioni nette e capacità d’acquisto, si evidenziano l’andamento dei prezzi estremamente differenziati (30% in più tra nord e sud Italia), si analizza l’incidenza della pressione fiscale, si parla di produttività e competitività, si prende in considerazione di “inventare” altri indicatori che siano sostitutivi o integrativi del Pil, ma non c’è nessuno che analizzi come tutto questo possa essere accaduto, quali siano state le cause e quali, eventualmente, i comportamenti responsabili di un simile risultato.

V è infatti il fondato timore che se non si analizzano per bene le origini e si sollecitano quindi comportamenti diversi perché questo non abbia più a ripersi, qualsiasi ricetta si possa mettere in campo, alla fine risulterebbe una soluzione non risolutiva della situazione e dei problemi conseguenti, per cui dopo pochi anni il fenomeno si potrebbe ripresentare nuovamente con tutte le sue problematicità.

Intendo dire che se la ricetta per dare maggior capacità di acquisto agli italiani (ed aggiungo anche la capacità di risparmio) è quella di lavorare, come si parla in questi giorni, sulla curva delle aliquote Irpef , sul collegamento tra retribuzioni e produttività e competitività, sulle riduzioni o deduzioni fiscali e sulle differenti capacità di acquisto tra nord e sud, non è detto che una volta trovato ed applicato il migliore mix poi questo sia efficace sempre nel tempo.

Infatti la pressione fiscale (ufficiale), punto più punto meno, è sostanzialmente la stessa da molti anni, ovvero dalla Riforma Preti del 1973, quando si passò dalla Denuncia Vanoni al “730”, con l’introduzione dell’Irpef e dell’Iva (che mise in soffitta l’Ige).

Inoltre l’adeguamento delle retribuzioni all’aumento del costo della vita con la “scala mobile” in periodo assai turbolento, fu modificato poco prima della seconda crisi petrolifera del 1978, con la creazione del punto unico di contingenza e l’eliminazione di quasi tutte le scale mobili anomale.

Questa operazione fu innanzitutto un atto di giustizia perché da un lato fu riconosciuto che l’adeguamento all’aumento del costo della vita, che in quegli anni era direttamente correlato ad un andamento dell’inflazioni galoppante, doveva essere slegato sia dal livello delle retribuzioni (si differenziava infatti in base al ruolo, al sesso e all’età anagrafica, minorenni compresi) e dall’altro perché scioglieva un modello ingessato per cui gli incrementi retributivi erano oggetto di effettiva trattativa contrattuale (insieme a quelli non certo secondari relativi agli aspetti produttivi).

In questo contesto, pur tenuto conto della forte percentuale di disoccupazione, le retribuzioni effettive nette ebbero comunque degli incrementi ed il periodo successivo, quello della concertazione iniziato nei primi anni novanta, non ha impedito, pur con confronti anche accesi, che le retribuzioni potessero essere adeguate sia al costo della vita che alla crescente produzione.

La produzione interna, in questo periodo, è cresciuta indubbiamente per effetto di un ventaglio sempre più grande di prodotti e servizi offerti anche se il sistema produttivo italiano è stato messo alla corda sia da incrementi pesanti delle materie prime (petrolio soprattutto) compensato da leve di politica monetaria, non ultima le svalutazioni competitive, che davano fiato alla produzione ed alla crescita del paese.

Resta il fatto che in questo ventennio le grandi sofferenze dei lavoratori dipendenti erano costituite, come detto, dall’elevata disoccupazione , mentre la correlazione tra retribuzioni e capacità di spesa (e ribadisco di risparmio) consentiva spazi di adeguamento e di sostenibilità.

Cosa è avvenuto però dai primi anni del secolo in corso, nessuno ha avuto il coraggio di esaminarlo con criticità senza far sconti a nessuno.

Citare l’entrata nell’Euro è una spiegazione fuorviante perché, lo dimostrano i fatti, se così non fosse stato, i rapporti con il dollaro non sarebbero così vantaggiosi come con l’euro (ne è la riprova della svalutazione della sterlina – 10 percento – sempre rispetto all’euro) e quindi l’effetto del prezzo del petrolio avrebbero innescato forti pressioni inflattive su tutta l’economia a tal punto produrre effetti ancor più devastanti di quelli prodotti dal 1973 in poi.

Il problema centrale è l’approccio all’apertura progressiva e inarrestabile al Mercato.

Non si tratta assolutamente di volerlo mettere in discussione, ma bensì mettere in discussione il modo, se mai fosse realmente accaduto, con coi è stato attuato.

Infatti, sino a che si è trattato di aprire al mercato concertandone tra parti sociali il passaggio, la sostenibilità da parte delle retribuzioni nette effettive faceva ancora la sua parte, ma quando si è inziato a navigare nel mare aperto è emerso inequivocabilmente che di concorrenza, per esempio se ne parlava a parole, ma nei fatti questa non esisteva.

La fluttuazione dei fattori produttivi non esisteva in realtà: la fluttuazione dei prezzi dei prodotti di largo consumo era una parodia perché nascosta dietro accordi più o meno inconfessabili fra produttori, mentre dall’altra parte questa fluttuazione non esisteva sul fronte dei consumatori, fra i quali i lavoratori dipendenti che ne costituiscono una larga parte.

In pochissimi anni la trasformazione delle retribuzioni da lire in euro è stata seguita da una profonda erosione della capacità di acquisto (e di risparmio) per cui possiamo tranquillamente dire che, anche se l’inflazione è rimasta entro limiti sostanzialmente fisiologici, vi sia stato il più grande fenomeno di trasferimento di ricchezza, per l’impossibilità da parte dei consumatori e lavoratori dipendenti di compensare questo fenomeno chiedendo ed ottenendo incrementi retributivi (e pensionistici) del tutto correlati.

Si parla ora di competitività poiché nel passato il sistema produttivo (di beni e servizi) ha puntato soltanto sulla produttività utilizzando dapprima nuovi processi come la robotizzazione ed l’informatica, seguiti dalla delocalizzazione (dove questa era possibile).

Da parte delle aziende, nel loro complesso, infatti non hanno avuto il coraggio (e la volontà di mettere adeguati capitali di rischio) per un cambio di passo verso produzioni sempre più eccellenti con conseguente aumento dei margini di guadagno (maggior valore aggiunto) preferendo magari delocalizzare; da parte dell’apparato statale non si sono ricercate economie di scala ed efficienza in tutti i servizi prestati, compreso quello dell’istruzione: il risultato è stato un incremento sia dei prezzi che delle tariffe che i nuovi processi avrebbero potuto consentire.

In questo contesto invece i lavoratori dipendenti non hanno avuto vie di scampo sia nel sottrarsi, tramite la concorrenza, all’incremento dei prezzi sia nel negoziare adeguamenti retributivi tramite i i rinnovi contrattuali.

Per quanto riguarda le tariffe non esistono nemmeno vie di fuga (o alternative) è l’incremento non ha nemmeno contribuito alla riduzione dei costi e soprattutto dello stock di debito.

Tornando quindi alle proposte allo studio in questi giorni con tutti i problemi di ricerca di mezzi che questi comportano deve essere ben chiaro che il sistema imprese oltre che ricercare competitività deve scegliere miglioramenti qualitativi a più alto valore aggiunto; l’apparato statale oltre che ricercare competitività deve scegliere la strada della diminuzione dei costi di apparato che devono contribuire alla diminuzione dello stock di debito e compensare la crescita fisiologica dei costi di funzionamento per cui alla fine le tariffe comincino a scendere progressivamente.

In caso contrario le scelte in esame pur necessarie e non più prorogabili produrrebbero risultati positivi solo per poco tempo in quanto non governare le altre variabili lasciandole fluttuare, lentamente eroderebbero i vantaggi così ottenuti ritornando alla situazione quo ante.

Indicatori Situazione attuale Situazione attesa

Retribuzioni reali nette da calo ad aumento

Consumi interni da calo ad aumento

Prezzi e tariffe da aumento a calo

P.I.L. da aumento lento ad aumento

Import/Export da aumento lento ad aumento

Entrate fiscali da aumento a aumento

Pressione fiscale da aumento a calo

Stock del debito da calo lento a calo deciso

Produttività/Competitività da aumento medio/basso ad aumento medio alto/alto

Economicità da bassa a medio alta/alta

Valore aggiunto da medio/basso a medio/alto

Da questa breve tabella si vede a prima vista che sono gli ultimi tre indicatori nel loro insieme che possono permettere di modificare strutturalmente l’andamento degli altri indicatori soprattutto quelli relativi al fisco.

Diversamente gli aumenti retributivi ricercati se non accompagnati anche da una diminuzione di prezzi e tariffe verrebbero progressivamente annullati; i consumi si reprimerebbero nuovamente, diminuirebbero le entrate, non si ridurrebbe il debito e nemmeno la pressione fiscale che tornerebbe ad aumentare.

sabato, gennaio 05, 2008

LEGGI ELETTORALI E GOVERNABILITA’

Dalla nascita della Repubblica il sistema elettorale italiano, fatta eccezione per il tentativo avvenuto nel ’54 con la cosiddetta “ Legge Truffa” abortito sin sul nascere per effetto di forti contestazioni, è rimasto sostanzialmente invariato sino ai primi anni 90, quando si è proposto ed approvato con apposito referendum una legge maggioritaria.

I motivi che hanno portato a questo primo cambiamento sono spiegati dal fatto che dopo molti anni non vi era più un partito di maggioranza assoluta o relativa come la Democrazia Cristiana, ma da almeno 20 anni si parlava di alleanze più o meno estese (dai monocolore, ai pentapartiti, agli appoggi esterni e via dicendo) che ne bene e nel male hanno governato e fatto progredire il paese.

Una caratteristica ha sempre contraddistinto comunque i governi susseguitisi alla guida del paese: che si trattasse di monocolori o di pentapartiti la vita media dei governi fu assai contenuta (quando 9, quando 13 o 18 mesi, quando governi balneari) e le legislature non duravano quasi mai i 5 anni previsti per effetto sia di divergenze politiche fra le varie anime della Democrazia Cristiana (correnti) sia per le crisi parlamentari che potevano essere ricondotte ai vari partiti delle alleanze che di volta in volta nascevano, crescevano e morivano.

Una governabilità davvero singolare comunque consentita da governi con vita media breve e tollerata o accettata dal corpo elettorale e dagli italiani.

Molto probabilmente la minor velocità delle evoluzioni economiche e sociali, rispetto alle attuali, potevano consentire un modus operandi come questo, ma soprattutto si trasformò in un assetto bloccato, con patti e contro patti più o meno palesi e leciti, che erano sempre meno adeguati ad operare in una società che si stava evolvendo a ritmi sempre più veloci.

La caduta del muro di Berlino e quella susseguente dell’ URSS da un lato lo scandalo “mani pulite” dall’altro hanno rimescolato radicalmente lo scenario politico italiano con la liquefazione di partiti storici e la nascita di nuovi e vi è stata sempre più convergenza e consapevolezza che occorreva raggiungere un modello politico bipolare che poggiasse sul principio dell’alternanza del potere di governo.

Il tipo di governabilità sviluppata dal dopoguerra era stata comunque in grado di rilanciare il paese, di tirarlo fuori dalle secche da crisi petrolifere e da diversi lustri di inflazione galoppante, ma aveva appesantito soprattutto dall‘ 83 in poi il bilancio dello stato sino a raggiungere livelli di debito enormi, ben superiori alla ricchezza prodotta ogni anno dagli italiani ed ecco perché occorreva ricercare un modello di governabilità che fosse più stabile e duraturo per perseguire una politica che da un lato procedesse al ridimensionamento del debito statale e dall’altro fosse adeguato alle sfide che l’economia mondiale imponeva anche al nostro paese.

L’obbiettivo del bipolarismo è stato senza dubbio raggiunto, ma la stabilità politica e soprattutto la governabilità – anche per i governi durati tutta la legislatura – invece no; infatti la governabilità si può verificare solo e soltanto con i risultati le la politica produce per tutta la collettività e le lo stato.

Si pensi soltanto al debito dello stato: sono ormai quasi 10 anni che è stato ricondotto in uno dei parametri di Mastricht (1°3% del Pil) ed i governi succedutisi non sono stati capaci –con il sostegno delle maggioranze parlamentari relative – a ridurlo perlomeno del 10% (l’uno per cento all’anno sono circa 15 miliardi di euro); si son fatte finanziarie più o meno pesanti, sono rifrullati miliardi di euro come fossero noccioline, ma risultati concreti zero.

Certamente occorre tener presente dei problemi contingenti, ma se l’obbiettivo è ottenere risultati positivi, questi non possono essere degli alibi per non raggiungerli mai; si potrà discutere del modi di come raggiungerli, ma alla fine, i risultati non devono assolutamente mancare.

Governabilità poca, quindi, perché di altri esempi se ne possono individuare a bizzeffe.

E non c’entra nulla la durata della legislatura e del governo poiché anche il precedente, pur con larga maggioranza, ha obiettivamente manifestato scarsa governabilità poiché non ha raggiunto gli obbiettivi dichiarati, ma ha galleggiato in modo poco produttivo.

Anche l’ultimo cambiamento della legge elettorale avvenuta nella primavera del 2006 non ha prodotto assolutamente governabilità perché il confezionamento della legge mirava – è nei fatti - più a prevedere o ipotizzare un risultato elettorato auspicato, piuttosto che individuare un modello che funzionasse adeguatamente per creare governabilità.

E non centra nulla il fatto che la coalizione di maggioranza attuale sia più articolata di quella di opposizione, la quale si sarebbe trovata anch’essa in forti difficoltà se il risultato fosse stato l’opposto.

Ora si parla di nuova legge elettorale accompagnata da adeguati e coerenti modifiche istituzionali o costituzionali; si parla di sistema tedesco, di sistema francese, di sistema ibrido (tedesco con correzione spagnola) con conseguenti schermaglie poste, come veti, da questo o quel partito per cui se ne parla molto, ma solo da pochi giorni la commissione ha portato in aula un disegno di legge, sul quale nascono aggregazioni più i funzione di propri interessi (compreso quello di mettere in difficoltà il governo in carica), lasciando chiaramente intendere che una convergenza non sarà certo facile (anche se il referendum in materia incombe).

I partiti, quasi tutti, confidano in cuor loro che tutti cambi perché nulla cambi: infatti l’ammissibilità del referendum e la consultazione conseguente non darà al paese un modello elettorale talmente efficiente da produrre governabilità per il semplice motivo che anch’esso poggia su basi troppo fragili.

L’efficienza e l’efficacia di un sistema elettorale è a prescindere dai partiti esistenti in quel momento sulla scena politica perché se, nella discussione, si pensa alla diretta convenienza (o sconvenienza) delle nuove regole per il proprio gruppo si perde di vista l’obbiettivo principale che è invece la governabilità; si confonde in buona sostanza questo termine con la rappresentatività, che è un’altra cosa.

La rappresentatività si raggiunge infatti con i programmi, con le alleanze, con candidati credibili (e soprattutto con i voti ottenuti) e non con la parcellizzazione del panorama partitico che porta, l’abbiamo visto, alla paralisi delle istituzioni.

La cartina di tornasole è costituita dall'esperienza di altre democrazie europee dove non occorre non occorrono maggioranza bulgare per governare (bastano quelle relative) e dove comunque l'opinione pubblica non fa sconti a nessuno (Francia compresa).

La vecchia legge elettorale del dopoguerra non andava più bene perché si è allargato il ventaglio dei partiti con rappresentanza parlamentare, ma quando fu istituita l’obbiettivo era quello della governabilità non della rappresentatività (i partiti civetta sparirono come neve al sole); così pure il sistema elettorale francese sorto nel 1948 aveva ed ha l’obbiettivo della governabilità ed ha imposto una semplificazione del quadro politico che non ha certamente ridotto la rappresentanza degli eletti e degli elettori.

Il timore quindi che possano essere adottati modelli che riducano la rappresentatività non esiste; esiste, qualsiasi sia il modello adottato o adottabile, la necessità di aggregare forze politiche omogenee, ma se le omogeneità non sono possibili ciò significa che ci si avvicina molto alle individualità e con queste non penso proprio si possa ottenere governabilità.

Di progetti non ce ne sono poi molti sul tavolo: soltanto il Partito Democratico ha esposto la sua proposta che ribadisce il principio del bipolarismo maggioritario per ottenere governabilità ed in prospettiva un rafforzamento ulteriori di questo modello, una volta modificato l’assetto delle due Camere, con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Su questa proposta tutti assentono o dissentono pensando rigorosamente al proprio orticello pensando a machiavellismi che verrebbero da un partito che non ne può assolutamente fare visto che è l’unico che non ha passato – vista la sua recente nascita – il vaglio della prova elettorale.

Il partito potrà certamente auspicare a diventare una forza di governo, ma ora va apprezzata la buona volontà di proporre una formula che possa dimostrare la sua efficacia nel tempo.

Non so dire se questa proposta sia la migliore, ma è certo che il dibattito sul tema deve decollare senza alcuna riserva mentale. Nel va appunto della governabilità e del futuro del paese.