sabato, ottobre 04, 2008

FEDERALISMO FISCALE: CI VORREBBE SAN TOMMASO

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge sul federalismo fiscale con una presentazione ad effetto da parte del Ministro Tremonti insieme alla nutrita squadra di Ministri (Calderoni, Fitto, ecc.), ma con la felicità misurata di Bossi (“bene, ma ora niente scherzi) e con Pd ed Udc che parlano di scatola vuota.

Lo stesso Tremonti dice che ora la palla passa al Parlamento per la sua discussione ed approvazione e soprattutto che occorreranno i decreti attuativi per i quali il Parlamento si dovrà impegnare nei prossimi due anni; aggiunge inoltre che l’entrata in vigore, effettiva, del federalismo fiscale ci vorranno almeno 5 anni e gli effetti tangibili e concreti li vedremo nel quinquennio successivo.

Tanto per essere realistici quindi siamo alla “posa della prima” pietra, importante certamente (se non si comincia non si finirà mai), ma ora l’importare è capire e verificare come questo progetto si concretizzerà nei fatti.

Una considerazione di premessa sull’iniziativa: penso che questo progetto sia dettato non solo e soltanto per attuare una parte della Costituzione, ma soprattutto perché, non potendo smontare l’anacronismo delle Regioni a statuto speciale (che avevano una logica al momento della nascita della repubblica), si è pensato bene di farne nascere altre 16, mettendo il cappello del federalismo.

Si sono introdotti poi dei concetti o degli obiettivi per attuare questo federalismo, ma non è assolutamente vero che, automaticamente, questi possano essere raggiunti.

Responsabilità fiscale degli organi locali
Innanzitutto la responsabilità si sposta da Roma ai capoluoghi di Regione quindi si avvicina molto di più alle comunità, ma non affatto vero che questo significhi maggior controllo da parte delle popolazioni sul buon governo regionale e delle altre amministrazioni locali.

Decentrare quindi la capacità impositiva agli enti locali che trasferiranno poi una quota allo Stato centrale per sostenere le sue funzioni e alle regioni che sono in difficoltà non significa assolutamente spender bene le risorse prodotte in ogni regione.

Rispondere direttamente al proprio elettorato è una enunciazione di principio, ma non è necessariamente automatico che un malgoverno significhi bocciatura: di esempi ne vediamo spesso eppure non ci sono sempre bocciature conseguenti, anzi è più facile vedere un cambio di cavallo, con il mantenimento però della stessa coalizione di governo, e dello stesso livello di inefficienza.

Quando si vota – parliamoci chiaro – non è solo il buon governo che premia, ma entrano in gioco molte altre componenti anche del tutto legittime.

Caso mai avrà molta più efficacia, per spender bene e pure risparmiare (eliminando sacche di improduttività o prezzi pilotati come nella Sanità), se usato con sapienza, l’applicazione del principio che per l’incremento della spesa non si debba più far riferimento alla spesa “storica”, ma alla determinazione dei migliori prezzi per servizio.

Questo caso mai è il grosso lavoro da fare, sul quale potranno nascere “assalti alla diligenza” da molte parti perché significherà mantenere inalterati – se non migliorati - qualità e quantità di servizi alle comunità spendendo meno del passato.

La difficoltà, è bene dirlo, non verrà solo dai privati che forniscono servizi, ma anche e soprattutto dalle municipalizzate (che sono amministrate da eletti dagli enti locali) che continuano ad operare in regime di monopolio e che faranno opposizione quanto verranno messe a confronto tra di loro.

Solidarietà fra Regioni
E’ il tema forse più delicato poiché è direttamente legato al diverso sviluppo economico tra le Regioni e quindi al diverso livello di reddito e ricchezza.

Solo sei regioni (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Piemonte e Toscana) spendono meno di quanto incassano, ma se andiamo a vedere la spesa pro capite ecco che le Regioni che spendono meno sono Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia.

Ciò significa che le Regioni che producono più Pil si possono permettere maggiori spese (a parte il Veneto virtuoso che spende quanto la Sicilia), mentre le altre, per non sentirsi in debito in via perpetua, dovranno inventarsi qualche cosa per raggiungere la ricchezza delle altre regioni.

Qui sta il busillis: l’alternativa è economizzare (ma come ) oppure aumentare la pressione fiscale accelerando una spirale involutiva.

Di questo annoso problema – lo sviluppo economico disomogeneo dell’Italia – non se ne parla e non se ne può parlare nella legge sul Federalismo fiscale, quasi a significare che altre sono le funzioni dello stato che si devono occupare di questo.

Questo Governo ( ma per la verità anche i precedenti visto che di federalismo se ne parla da almeno 15 anni con i primi timidi atti del primo Governo Prodi) non sembra preoccuparsene se non con enunciazioni di principio - il Mercato se possibile, lo Stato se necessario (Tremonti) - ma senza lasciare nemmeno trasparire iniziative che portino alla crescita queste regioni.

Già: il problema non è semplice perché molte sono le cause (“la questione meridionale” si trascina ormai dall’unità d’Italia) e molte dipendono dall’inefficacia dei governi susseguitisi dal dopoguerra che non sono riusciti a rimuovere le cause, soprattutto, sociali che hanno appesantito, come piombo, queste economie.

Autonomia impositiva per tasse e tariffe

E’ il principio forse più preoccupante per gli italiani perché se da un lato l’obbiettivo è quello di spender meno e meglio, esiste pur sempre questa valvola da aprire che stravolgerebbe l’impianto di questa legge.
E’ un aspetto questo appena sfiorato nella presentazione, ma che è stato anticipato da interventi vari nelle scorse settimane (quando si trattava di reintrodurre l’Ici o tassa equivalente che riassumesse molte tasse e tariffe locali) e che preoccupa non poco gli italiani.

Una cosa infatti è sostenere la tesi che ognuno cerca di spender al meglio quanto frutta il prelievo fiscale (destinando comunque una quota a stato e regioni più povere), altra cosa è dire maggior tassazione (o tariffe) a chi vuole maggiori e più qualificati servizi.

In questo senso gli italiani sanno benissimo che non ci sono limiti alle fantasie degli amministratori locali o delle municipalizzate (l’ultima è a Ravenna che vuol far pagare l’acqua piovana) e che soprattutto queste si trasformano sempre in maggiori costi per i contribuenti, mai nel contrario.

Il mio atteggiamento sul federalismo fiscale è quindi di scetticismo misto a prudenza: staremo a vedere.


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