giovedì, settembre 18, 2008

TELECOM ITALIA : SEMPRE ALLA RIBALTA

In questi giorni ritorna a galla un vecchio progetto di riassetto della compagnia che riguarda in particolare lo scorporo, in società ad hoc, della rete sia fissa che mobile.

A mio modo di vedere non è, per l’Italia, un fatto né irrilevante né tutto interno a Telecom stessa, perché sulla struttura della telecomunicazioni si può giocare lo sviluppo più o meno veloce dell’economia italiana che riguarda quindi tutti noi.

Parto dal fatto che l’infrastruttura delle telecomunicazioni (banda larga, fibra ottica, ecc.) è si un fatto interno alla Telecom, ma è un fatto di pubblico interesse poiché i maggiori o minori investimenti hanno ovviamente diretto riflesso sullo sviluppo e modernizzazione del paese (né più né meno della rete stradale ed autostradale).

E’ altrettanto vero che la modernizzazione della rete è un affare che produce necessariamente costi ed investimenti non da poco e che lo sviluppo della rete viene già da ora utilizzato da altre compagnie telefoniche di tutto rispetto, per cui non è pensabile che Telecom debba e possa portare da sola l’onere di questo sviluppo che comporta maggiori impegni finanziari, se pur attenuati, nel tempo, dal ritorno economico per l’uso che gli altri concorrenti faranno di una rete più moderna ed efficiente, oltre che dallo sviluppo del proprio fatturato.

In questo senso la privatizzazione di Telecom avvenuta nel 1996 anni fa ha fallito, ma non poteva esser che così poiché non era prevedibile lo sviluppo vertiginoso che il comparto ha avuto in questi anni e per il fatto che l’imprenditoria privata – a parte forse il periodo gestito da Roberto Colaninno – ha pensato a sviluppare il core business del momento senza guardare all’orizzonte (vi ricordate il “nocciolino “duro di controllo di Fiat con il suo 2% ?).

Il governo uscente – o qualche suo esponente - ha timidamente preso in esame questo tema, ma subito è nata una caccia all’untore perché nell’agone politico tutto – anche uno starnuto – è utile per attaccare o indebolire l’avversario ed in questo caso la fragilità della coalizione di riferimento e l’efficacia mediatica dell’opposizione ha messo a tacere brutalmente qualsiasi analisi sul tema (tutto perché l’idea non è venuta in mente prima a loro).

Inoltre l’idea di scorporo – nel 2006 – nata all’interno di Telecom stessa era essenzialmente funzionale ad una ristrutturazione finanziaria della compagnia alla stessa stregua di ipotesi di cessione di partecipazioni estere che contribuissero a ridurre il debito divenuto troppo oneroso, ma scaturito non da investimenti tecnici – magari inopportuni o eccessivamente onerosi – ma dagli impegni assunti per l’acquisto della compagnia stessa.

Se ricordate infatti quando nel 2001 subentrò la proprietà Pirelli tramite Olimpia, successivamente, con una serie di operazioni di incorporo, il debito di acquisto fu trasferito dentro Telecom Italia e gli eccellenti utili operativi della società costituirono la fonte di rimborso del debito, ma non la fonte per ulteriori investimenti tecnici.

Resta il fatto che nel 2006 , di fronte alla volontà della società di scorporare le reti (da inserire in società ad hoc da quotare in borsa) e risolvere i problemi della Telecom ed anche di Pirelli, l’ipotesi analizzata da Roversi di trovare una collocazione della proprietà in società controllata dallo stato (Cassa Depositi e Prestiti) e finalizzata però allo sviluppo della rete nell’interesse del paese, non era poi cosi tanto peregrina.

Resta il fatto che la cosa non fu capita anzi violentemente avversata, ma la proprietà di Telecom trovò comunque una risoluzione ai suoi problemi: Olimpia vendette alla neonata Telco spa la sua quota di controllo (oltre il 23% ) concludendo tra l’altro un ottimo affare.

La Telco peraltro è controllata da alcuni importanti imprese finanziarie italiane (Mediobanca, Generali, Intesa San Paolo, Benetton, ecc), ma soprattutto da Telefonica, la compagnia telefonica spagnola (con la quota di maggioranza relativa).

Questa operazione ha salvato l’italianità di Telecom, ma questo principio è assai fragile perché è sufficiente un cambiamento della compagine sociale, magari imposto da necessità legate alla crisi finanziaria in atto, a nuove strategie di sviluppo o all'operazione di scorporo stessa ed ecco che l’italianità – tanto sbandierata in questi giorni in altri campi – andrebbe a farsi benedire.

L’idea dello scorporo delle reti in questi giorni sta comunque riemergendo è si ha la netta impressione che l’idea nasca sempre per alleggerire il debito in collo a Telecom che per progetti di più alto profilo e le prospettive di realizzazione non sono per nulla semplici.

Tra l’altro la società proprietaria delle reti andrebbe quotata in borsa e verrebbe sollecitata pure l’entrata di fondi ed altre imprese della finanza internazionale.

Telefonica non ha interesse ad avallare una operazione del genere innanzitutto perché controllerebbe una Telecom più leggera (di debiti, ma anche di infrastrutture tecniche) e poi per il fatto che analoga operazione le potrebbe essere richiesta in patria.

Obbiettivamente non ritengo che non faccia nemmeno piacere a tutti noi il sapere che il nostro apparato di telecomunicazioni andrebbe in mano anche a soggetti certamente qualificati ma sconosciuti.

Ora ben sapendo che negli affari tutto è possibile se lecito, e che quel che non si poteva fare un tempo, lo si può fare invece oggi, sarebbe bene che l’attuale governo non abbia reticenza a riprendere in mano vecchi progetti, vecchie analisi e dimostrare la sua capacità a ricercare tutte le forme di modernizzazione – reale – del paese.

Intendiamoci bene: entrare nell’argomento infrastrutture telefoniche significa affrontare questo tema nell’esclusivo interesse del paese e del suo futuro, ben sapendo che oggi la situazione è ben più complicata di quella di due anni fa.

C’è infatti oggi un socio straniero (tra l’altro concorrente di Telecom) che non sarà facile “addomesticare” e socio italiani di peso la cui missione non è il core business di Telecom per cui vanno sollecitati precisi orientamenti per lo sviluppo – economicamente conveniente – delle infrastrutture telefoniche utili e sempre più necessarie al paese.

Diversamente se intervento non ci sarà o se questo non sarà funzionale agli interessi della collettività, ancora una volta avremo il riscontro delle finalità che questa politica si propone: l’interesse di pochi contro quello dei tanti.

mercoledì, settembre 17, 2008

LE INVERSIONI O LE CONVERSIONI DEL MINISTRO TREMONTI

Ieri sera all’intervista del Ministro Tremonti sul TG1 delle venti da parte di Gianni Lotta, sono rimasto a bocca aperta non per quanto dichiarato sulla crisi finanziaria che sta abbattendosi sui principali colossi nordamericani soggetti (Lehman Brothers, Aig, Merril Linch, ecc), quanto sulle cause denunciate candidamente.

Sostiene Tremonti che questo dipende dal fatto che l' economia mondiale (e quella Usa che ne è buona parte) è molto spesso influenzata da una finanza “di carta” per cui o prima o poi le magagne vengon fuori e presentano conti severissimi anche a soggetti alto lignaggio.

L’economia vera invece è quella manifatturiera (anche quella a basso prezzo prodotta dai paesi del sud est asiatico acquistata dagli americani indebitatisi in modo sconsiderato ) ed in Europa i paesi che poggiano su questo “fondamentale” sono – nell’ordine - Germania, Italia e poi via via gli altri.

Nulla da dire sull’analisi perché è già la seconda volta – in pochi anni - che la finanza di carta produce danni ingenti: è accaduto nel 2000 (con la bolla speculativa) e riaccade oggi (anche se non sappiamo ancora quali saranno gli effetti definitivi).

Per inciso: avete notato che i momenti di flessione nell’economia americana coincidono con i cambi obbligati del Presidente ? Oppure dobbiamo registrare che quella economia ha un andamento ciclico di otto anni ? Teniamone conto per il futuro.

Certo è che il Ministro Tremonti –con quel suo modo saccente – non ci può prendere in giro in questo modo spudorato lanciando – sapientemente – slogan ad effetto per gonfiare la credibilità di questa maggioranza quando dice che la vera economia è quella manifatturiera che poggia sul capitale e sul lavoro mentre quella di carta è solo l’appariscenza degli alti palazzi a vetri e specchi che quando crolla mette per strada la povera gente.

Complimenti, sembra quasi un Che Guevara del nuovo secolo !

Ma la spudoratezza stà proprio nell’affermare questi concetti che sarebbero condivisibili se detti in buon fede, mentre il suo passato ed anche il suo presente dimostrano proprio l’opposto.

Nel 2002 propose – senza riuscirci - cartolarizzazioni di beni immobili dello stato utilizzando anche la leva del crescente valore cauzionale dei beni cartolarizzati; cosa vuol dire questo: che ha proposto – per far cassa – la cartolarizzazione – non la vendita - di immobili cercando di sfruttarne al massimo il valore commerciale, cresciuto nel frattempo per effetto della crescita del mercato immobiliare. (cartolarizzare significa cedere il diritto reale sul bene riaffittato al venditore che diventa affittuario, che paga in base al valore commerciale gonfiato; ma poi quando il valore scende l’affitto resta sempre lo stesso con evidenti perdite latenti).

Questa, in piccolo, non è altro che l’operazione fatta da tanti soggetti finanziari americani – ora in enormi difficoltà – che hanno rifinanziato il debito degli americani sfruttando la crescita del mercato immobiliare, non tenendo conto che nella vita esiste il bel tempo, ma anche quello pessimo: il mercato immobiliare si è ridimensionato (e quindi il valore cauzionale dei beni a garanzia del debito mutuato è sceso sotto il valore del debito esistente) e l’economia americana si è pure ridimensionata, per cui i debitori non avevano e non hanno più la capacità di rimborso originaria.

I crediti derivanti dai tutti questi mutui sono stati cartolarizzati ed inseriti in prodotti finanziari strutturati di risparmio, decuplicando l’effetto delle operazioni sottostanti; nel momento in cui queste si sono ripiegate ecco che il castello di carte è crollato.

Va ricordato infatti che qualsiasi economia gira bene se – come si dice – “gira il mattone”, ma se la crescita viene drogata poi l’onda di ritorno può avere effetti paragonabili a quelli di uno tsunami.

Un’altra regola aurea è che alla capacità di debito deve corrispondere la capacità di risparmio: questa regola negli Usa è stata sempre disattesa poiché il popolo americano ha una altissima propensione al debito, ma è il popolo meno risparmiatore della terra.

Continuando su Tremonti ora si è inventato “l’economia sociale di mercato”.

Che cosa vuol dire ?

Il mercato – che è ormai globale - continua a regolare le economie per cui l’azione politica del governo in carica va in questo senso; ciò significa che sollecita, o crea le condizioni, affinché qualsiasi iniziativa possa generare ricchezza, mafari semplificando, togliendo lacci e lacciuoli,ma nel caso in cui qualcuno resi indietro e non ce la faccia, ecco che intervengono strumenti di sostegno per lavarsi la coscienza.

Libero mercato quindi, ma non pari opportunità.

E questa azione si vede in qualsiasi azione del Governo in carica dove l’opinione pubblica acconsente spesso in grande maggioranza, ben sapendo che comunque a pagare sarà sempre pantalone (confidando che pantalone sia sempre il suo vicino naturalmente).

Se ricordate Tremonti e il suo capo Berlusconi montarono una campagna indecente contro l’entrata dell’Italia nell’euro chiosando sul taglio delle monete e sui livelli di cambio lira-euro; la strumentalità è dimostrata dal fatto che nella crisi attuale questa fandonia non riemerge, anzi si afferma che l’Europa e l’Italia sono fuori da questa crisi anche perché il sistema di controlli delle economie europee sono molto più efficienti ed efficaci di quelli americani.

Si plaude quindi all’azione della Bce che ha applicato regole ferree antiinflazionistiche, che ha istituito decisi controlli sull’azione bancaria, la stessa Bce che ha governato la scesa in campo dell’euro, con tutti i vantaggi e svantaggi del caso.

Ma non è finita qui: dal 1996 la discesa dei tassi ha consentito un aumento vertiginoso di acquisti di case da parte delle famiglie italiane (si diceva una rata del mutuo costa quanto un affitto) e la cosa è proseguita per 10 anni senza sussulti; poi la crescita della economia europea a un lato e la diminuzione di quella Usa ha prodotto una crescita dei tassi ed ecco che emersa la difficoltà dei mutuatari a sostenere rate di mutuo a tasso variabile (è evidente che in momenti in cui i tassi di riferimento erano del 2- 2,5% nessuno andava a prendere mutui a tassi fissi, magari trentennali).

Ebbene Bersani ha introdotto un elemento di concorrenza introducendo la portabilità dei mutui; questa norma non è obbiettivamente semplice perché va ricondotta ad ogni singolo mutuatario e a resistenze da parte delle banche (peraltro punite sonoramente con forti multe dall’antitrust), ma Tremonti, il creativo, ha introdotto un accordo con le banche per “cristallizzare” le rate ai tassi del 2006 lasciando fluttuare la durata.

Splendido: ha fatto un grosso regalo alle banche (regola aurea: al buon cliente concedi credito il più lungo possibile per incassare più interessi) e ha dato una grande fregatura alla “povera gente” che non sa quanto potrà durare il suo debito, perché nessuno sa quale sarà l’andamenti dei tassi negli anni a venire.

Perlomeno Bersani ha cercato di favorire – caso per caso – la diminuzione delle condizioni su mutui, ma con durata comunque certa.

Ancora: la manovra finanziaria del governo attuale studiata da Tremonti poggia su un principio del tutto condivisibile: ridurre la spesa (con meno si fa di più), ma nell’attuazione del programma i tagli son fatti con con la scimitarra senza cioè pensare al mantenimento di una eccellente qualità.

Si parla di fannulloni senza colpo ferire (quando Padoa Schioppa parlò di bamboccioni venne fuori una mezza rivoluzione), ma in realtà non si vuol mettere in riga chi fa le spalle tonde, bensì ridurre l’impegno dello stato nei servizi alla collettività, per trasferirlo all’iniziativa privata, senza che questo ci possa garantire però migliori servizi a prezzi più bassi (è garantito che concorrenza non se ne creerà).

Per non parlare della scuola: si afferma che la nostra è inefficiente, che deve migliorare, ma il percorso per far questo è ridurre il monte ore e tagliare occupazione in modo indiscriminato; se ci sono 80 mila insegnanti in più, non ci viene spiegato quale tipo di razionalizzazione permette di trarre questa economia: solo con il maestro unico ?, con le pluriclassi ?

Anche qui il sospetto – proprio per applicare l’economia sociale di mercato – è garantire la scolarità minima indispensabile per chi non può permettersi una scuola privata.

Proseguendo: il precedente governo aveva allestito fondi (in varie forme circa un miliardo di euro per il sostegno all’edilizia popolare, alle abitazioni per anziani, indigenti, ecc) ebbene il nuovo governo ha trasferito queste risorse non ancora spese i una nuova iniziativa: un fondo immobiliare a partecipazione pubblica e privata dove confluiranno queste risorse, oltre a quelle derivanti dalla dismissione di fabbrica di civile abitazione da vendere agli affittuari che possono riscattarli.

Apparentemente sembrerebbe una bella operazione, ma c’è un ma: lasciamo fare i fondi immobiliari (banche, assicurazioni, ecc) a chi li sa fare (e che li propone ai risparmiatori con le dovute cautele e modalità) perchè nel nostro caso, anche in una società mista, la finalità non è sarà quella di fornire alloggi dignitosi ed economici a chi non ce la può fare (pensionati, disoccupati, famiglie numerose, ecc), ma quello di ottimizzare il risultato che non può collimare con l’obbiettivo dichiarato all’inizio.

Per finire (ma di esempi ce ne sarebbero ancora a iosa) il caso Alitalia: il precedente Governo, forse in modo ipergrantista, ha allestito un’asta estenuante per il suo acquisto, ma alla fine l’unico acquirente rimasto è stato fatto scappare a gambe levate sia per l’irresponsabilità di alcuni sindacati, che per le dichiarazioni del probabile futuro Presidente del Consiglio: ha dichiarato di non accettare la nuova proprietà proponendo – per l’italianità – una cordata italiana, includendo pure i suoi figli.

Ebbene utilizzando il punto debole (i sindacati) ha fatto saltare il banco per riproporsi come salvatore della patria per prendersi il merito di aver mantenuto l’italianità (ma dov’era con le operazioni Edison e Telecom ? E che cosa dirà se scenderà in campo Airfrance o Lufthansa ?).

L’operazione dove sono saltate le principali regole (è una licitazione privata) si concluderà comunque positivamente, ma caro mi costa: per gli esuberi è prevista una mobilitazione lunga sino a 7 anni (sic!) e comunque, per la parte che non rientrerà in Cai spa già sono state fatte al commissario Fantozzi offerte del tutto interessanti ed interessate.

Questo vuol dire che il core business (come per Parmalat) è comunque valido ed interessante, ma è la struttura, i privilegi, il clientelismo, gli sperperi (comprese le liquidazioni dei vari amministratori delegati) che hanno affossato la compagnia, sulla cui rinascita pagheranno il conto più salato i cittadini ed i lavoratori (piloti in primis).

Concludendo sarà bene che il Ministro Treomonti e molti suoi accoliti e colleghi la facciano meno tronfia e soprattutto comincino una buona volta a mantenere coerenza tra il dire ed il fare poiché di fumo negli occhi siamo letteralmente stufi (nonostante le tanto sbandierate statistiche di apprezzamento oceanico o plebiscitario del Governo in carica).

domenica, settembre 14, 2008

PRESIDENTE: LA STA’ FACENDO GROSSA, QUESTA VOLTA !

Il Presidente del Consiglio che in campagna elettorale ha convinto la maggioranza relativa degli elettori della bontà della sua coalizione e soprattutto del suo programma, ha dimenticato che quando si promette bisogna avere la ragionevole convinzione di essere in grado di concretizzare quanto detto.

Le promesse non possono essere sparate cosi (come si sparano cazzate al bar) perché poi se si attuano o non si attuano i risultati non ricadono immediatamente su chi le ha fatte, ma subito, immediatamente, sul collo di chi, disarmato, non può nemmeno difendersi.

Il decisionismo promesso ed applicato e la pubblicità promessa e non mantenuta diventano quindi un grande boomerang che si ritorce contro chi l’ha fatta, decollando però, nel suo tragitto, migliaia di teste inconsapevoli ed inermi.

Non so quanto possa aver convinto in termini di voti la promessa di una cordata italiana, per confermare l’italianità e per salvare Alitalia dalla crisi, ma resta il fatto che questa promessa tanto sbandierata, sino a ipotizzare la scesa in campo dei suoi figli, ha certamente creato attese nell’elettorato, incertezze a lavoratori e sindacati e ritrosia ad Airfrance – Klm che di fronte all’incertezza politica prodotta dalle imminenti elezioni politiche( soprattutto alla diversità di posizione sul problema e la sua risoluzione) se n’è fuggita a gambe levate.

Quanto promesso sembrava a tutti noi un qualche cosa di già abbozzato (se pur segreto) per cui abbiamo atteso trepidanti che questa si concretizzasse, mentre invece abbiamo avuto tutti la sensazione che la costruzione dell’alternativa si sia messa faticosamente in movimento all’inizio dell’estate, senza che il governo in carica (a differenza del precedente che qualche paletto l’aveva messo) abbia mosso foglia: ne aveva il diritto ed il dovere perché le politiche sociali spettano al ministro del Lavoro e quelle dei trasporti al ministro Scajola.

Invece si è delegato il tutto ad una banca di tutto rispetto che facendo il suo mestiere ha trovato e patrocinato la cordata italiana, ma ovviamente senza alcun vincolo “politico”.

La velocità e determinazione del Governo si è vista solo nella modifica della Legge Marzano, utile alla nuova compagine societaria per rilevare in sicurezza quanto le tornava utile della vecchia Alitalia, ma di raccomandazioni – se non esplicite nemmeno intuibili – nemmeno l’ombra.

Si sono imposti tempi stretti (avendo pure la scaltrezza di coinvolgere imprenditori come Colaninno e professionisti come Fantozzi) e soprattutto si è ribadito – i fatti lo stanno a dimostrare – che l’elemento umano con il suo lavoro ( e le sue rappresentanze) è del tutto incidentale al progetto industriale.

Certo il costo del personale è un elemento di appesantimento dell’attuale Alitalia, ma non l’unico: ve ne sono di altri ben più pesanti come il management, le linee, i servizi, gli scali, che non hanno consentito di ricercare nel tempo economie ed efficienze.

Quanto all’italianità abbiamo visto in che cosa consisteva: la Cai ha parlato sin dal primo momento di partner industriali internazionali tanto che Aifrance – Klm si è subito riproposta, affiancata da Lufthansa e British; ma cosa pensava il Governo in carica ?

Che una nuova proprietà non pensasse ad alleanze commerciali o ancor di più a compartecipazioni ?
O a future lucrose cessioni come ipotizzato da Cai ?

Resta il fatto che ora siamo vicini al tracollo totale, con una compagnia di bandiera, dal Presidente Berlusconi tanto agognata, i cui aerei potrebbero restare a terra chissà per quanto tempo e ci si preoccupa, soltanto, della figuraccia che stiamo facendo sul piano internazionale: già, al Governo Berlusconi interessa l’Italia, non gli italiani !

Arrivati a questo punto anche un ciuco capisce che se in primavera non entravano in campo fattori di turbolenza scientificamente interessata, l’accordo con Airfrance – Klm (primo vettore mondiale) si sarebbe concluso positivamente: il marchio Alitalia continuerebbe a volare per il mondo quale componente di un network mondiale.

Non avremmo sprecato denaro inutilmente, messo a disposizione, con alto senso dello stato e su richiesta specifica del Presidente del Consiglio in carica, dal Presidente Prodi; gli esuberi, sarebbero molto più contenuti sarebbero stati assorbiti già dalle offerte di mercato (non si tratta di netturbini con tutto il rispetto, ma di piloti, stewart, hostess, assistenti di terra, tecnici di manutenzione,ecc).

Certo l’obbiettivo di creare una nuova compagnia di bandiera non si perde: si prospetta un bel fallimento dove trovare assets a buon prezzo per ripartire ed un bacino di disoccupati (in mobilità) dove pescare, mentre i restanti resteranno per qualche tempo a carico dell’Inps, quindi, giustamente, a carico di noi tutti.

Ora che la frittata rischia di esser fatta, infine, si cerca di addossare le colpe agli altri: ai sindacati che non capiscono, o alla opposizione che gufa o fa l’avvoltoio.

E’ proprio vero: un bel tacer non fu mai scritto !!

Certo, ora che la corda è ben tesa, quasi al limite di rottura,ecco che ci mette la faccia in prima persona: se andrà per il meglio dopo aver fatto sentire la sua influenza personale, ne sortirà una grande vittoria di cui pavoneggiarsi di fronte a tutti; se dovesse fallire, i capri espiatori – imprenditori compresi - sono già belli e pronti !

mercoledì, settembre 03, 2008

LIBERO MERCATO CHE LIBERO NON E’ !

Leggo oggi su Repubblica una serie di articoli ed interviste relative all’andamento del prezzo del petrolio al barile che continua a scendere, se pur a livelli parecchio inconsueti rispetto al passato, ed il prezzo dei combustibili che stentano a calare, dopo essere aumentati in un anno di oltre il 30%, proprio per effetto dell’aumento vertiginoso del greggio.

Dunque è chiaro che il prezzo del greggio è formato dalla capacità produttiva dei paesi Opec e dall’andamento dei consumi per cui i valori di domanda ed offerta sono sostanzialmente speculari.

A questo fatto va inserito il valore della moneta di regolamento, il dollaro americano, la cui minor o maggior debolezza verso le altre principali monete di conto valutario influisce sulla formazione del prezzo al barile (il produttore, se il dollaro si deprezza, ne vuol di più).

A questo va aggiunto infine il fattore sostanzialmente nuovo della speculazione finanziaria, la quale è costituita da edge found che hanno in questo periodo scommesso, con opportuni contratti a termine sull’aumento del prezzo al barile puntando addirittura ai 250 dollari il barile.

L’effetto speculativo sembrerebbe sgonfiarsi perché, nonostante il deprezzamento del dollaro che per la verità si sta riprendendo, è iniziata la diminuzione dei consumi per cui il “giochetto” sembrerebbe arrestato (comunque gli edge found hanno comprato al rialzo ed il loro guadagno, più modesto, dovrebbero averlo ottenuto).

Se guardiamo comunque la serie storica del prezzo al barile partendo dal 1950 questa evidenzia prezzi sostanzialmente stabili (tra i 9 e 14 dollari) se si escludono picchi avvenuti in concomitanza di gravi situazioni finanziarie o politiche; mi riferisco alla crisi petrolifera del 1973, di quella del 1978 che hanno prodotto violenti aumenti peraltro durati pochi mesi.

Dagli anni 90 il prezzo al barile si è assestato intorno al 20/25 dollari e nemmeno la crisi delle twin towers dell’ 11 settembre 2001 ha avuto effetti sul prezzo.

Nello stesso periodo l’andamento del dollaro ha avuto un percorso del tutto indipendente con influenza modesta sulla formazione del prezzo del greggio, se si esclude questo ultimo quinquennio dove il dollaro è passato da 0,88 a 1.48 rispetto all’euro ed il petrolio ha iniziato progressivamente ad aumentare, anno dopo anno, sino a raggiungere quasi i 150 dollari il barile (anche se è già successo di vedere il dollaro a 11oo lire e a 2200).

Vediamo quindi quanto questo fenomeno possa influenzare ed essere influenzato dalle varie economie che compongono quella globale in cui viviamo, ma quello che non è giustificato è l’andamento dei prezzi al consumo che viene influenzato in modo decisamente disarmonico.

Non è assolutamente condivisibile quanto affermato nell’intervista al Patron di Erg, Edoardo Garrone, perché se è vero come è vero che gli incrementi dei prezzi del greggio hanno prodotto l’incremento di benzine e gasoli è altrettanto vero che non si possono ora invocare tesi che sostengono la non correlazione dell’andamento dei prezzi.

E’ vero invece il contrario: se Fiat cresce in modo significativo, crescono pure i suoi fornitori, per cui una correlazione sull’andamento dei prezzi azionari, se tutti son quotati, esiste eccome (vorrei vedere il contrario con le azioni Fiat in calo e quelle di un fornitore unico in salita).

La verità è un'altra, invece, e questa riguarda la formazione di tanti prezzi di prodotti al consumo: esistono cartelli o accordi di categoria che nulla hanno a che fare con la concorrenza che dovrebbe sollecitare maggiori consumi a prezzi più bassi.

Sostengo che gli accordi di qualsiasi, di molti, prodotti sono concertati a livello locale per cui il consumatore si trova circondato da una ragnatela di prezzi (o tariffe) per singolo prodotto dalla quale non può, per ovvie ragioni di mobilità, uscire.

Lo dimostrano i prezzi: se a Firenze il gasolio di trova a 1.35/1,38, a Verona si trova a 1,42/147; il pane a Verona tra 2,90 (pan comune) e 3,80/4,10, a Roma 2,50 e a Firenze o Pisa, il filone di pane da un chilo a 0,90/1.0 euro !

Sui combustibili da trazione ne stiamo da anni vedendo delle belle e la convinzione dei più è quella di essere presi in giro continuamente in modo spregiudicato, senza che si muova foglia.

Esempi a frotte: quando non esisteva la benzina verde quella a maggiori ottani, meno usata, costava di più ed anche quando è stata introdotta la verde, proprio perché meno usata costava di più della “rossa”, mentre il gasolio, anch’esso meno usato rispetto alla benzina, costava circa la età.

Era il periodo in cui muovere con spregiudicatezza queste leve (manovrare con disinvoltura i prezzi di petrolio e benzine) era un esercizio pericoloso perché poteva risultare un boomerang: il cavallo smetteva di bere e la benzina restava li in deposito (ricordate le domeniche veramente a piedi ?).

Con l’eliminazione delle benzine inquinanti il sistema della formazione dei prezzi è stato rivoluzionato ed il gasolio, sfruttando l’aumento dei prezzi, ha raggiunto la parità con il costo della verde.

La rivoluzione sta proprio in questo: se un tempo la benzina meno usata costava di più, oggi avviene giusto il contrario e nel caso del gasolio (proprio perché usato oggi dal 65% degli automobilisti), solo per mero senso di pudore il prezzo non ha superato quello della verde.

Oltre agli accordi nel territorio che dividono il mercato in tanti mercatini giocando sul fatto che non posso obbiettivamente partire da Verona, per andare a Firenze a far gasolio e proseguire per Roma per acquistare le michette (fenomeno che si sta generalizzando in un po’ tutti i comparti merceologici); di altre genialità o rivoluzioni copernicane create da chi forma il mercato se ne trovano ancora di altre, parecchio curiose.

Ventenni fa gli impianti di riscaldamento erano quasi tutti a gasolio ed iniziò il “cablaggio” con gli impianti a gas meno inquinante, che costava un terzo a parità di calorie prodotte; poi qualche “genietto” ha ben pensato di collegare l’andamento del prezzo del gas ( e quindi dell’elettricità) a quello del petrolio ed ecco completata la catena intorno al collo del consumatore: comunque si muova è circondato.

Ma l’opinione pubblica, i consumatori sono forse inermi, ma non sono rincitrulliti: sanno perfettamente che i prezzi, in libero mercato, si formano per effetto dei rapporto domanda/offerta dove l’offerta contiene i prezzi produzione per cui qualcuno mi dovrebbe spiegare che centrano i costi per la produzione, raffinazione e distribuzione del greggio con quelli di estrazione e distribuzione del metano (non possono essere analoghi perché quando si consumava meno gas avrebbe dovuto costar di più !) .

E’ evidente che non esiste assolutamente alcun controllo per cui in un mercato aperto esistono troppe economie di vantaggio, contro le quali il consumatore ben poco può fare.

Il pericolo per questi produttori sarebbe quello che, a tirar troppo la corda, questa si spezzi o t'impicchi, ma e’ altrettanto evidente che in un mercato globale il giochino si può spostare da un luogo all’altro a piacimento, per cui di fronte a violente contestazioni, si torna apparentemente indietro per riapprofittarne alla prima occasione.

Il Ministro Brunetta sulla resistenza dei prezzi di benzine e gasoli afferma che … “c’è qualche cosa che non va “: bah c’è parecchio che non va ed il giochino l’hanno imparato in molti, in troppi, anche le municipalizzate dell’acqua potabile che fan pagare 0,10 centesimi a metro cubo, ma ne addebitano 0,98: la differenza e costituita da abbonamento, trattamento acque reflue ed utilizzo fognature(son sensibile agli aspetti ecologici ed ambientali, ma di economie di scala per contenere i costi non se ne parla).
Ci si "arrampica" sulle accise o sull'Iva, ma il primo problema da affrontare non è il prezzo in se di gasoli e benzine, bensì toccare con mano, alla pompa, un differenziale prezzi che sia ovunque significativo, come nel resto d'Europa (che sia Francia, Austria, Spagna o Germania) dove posso trovare nella stessa città o contrada gasolio a 1,4 ma anche as 1,10/1.15: questo dimostra la vera concorrenza che permette al consumatore di scegliere effettivamente.
Sui costi maggiori di distribuzione in Italia rispetto alla maggior parte d'Europa, anche qui si vogliono raccontare fanfaluche: in due decenni abbiamo eliminato migliaia di piccole pompe di benzina (si aveva il timore di metter per strada tanta gente) per averne di meno e di più grandi (economia di scala); ebbene l'obbiettivo s'è raggiunto, ma la contro indicazione è quella che com meno chioschi di benzina ci si mette d'accordo più facilmente.
Sugli orari d'apertura, infine, si raggiunge il massimo: è da anni che con il bancomat si può far benzina anche la notte e la domenica, ma perchè farlo se nella maggior parte dei casi benzine e gasoli costan di più (quando i costi variabili dell'impianto non ce ne sono)?
Se tutto questo è libero mercato penso proprio che avremo, tutti , molto su cui riflettere.

martedì, settembre 02, 2008

ALITALIA: LA STORIA INFINITA

Riprendo i miei pensieri sulla crisi Alitalia espressi nell’aprile scorso su mio blog.

Allora espressi scetticismo sulla riuscita dell’accordo con Air France – Klm, ipotizzando che la compagnia di bandiera sarebbe andata al fallimento (ovvero amministrazione straordinaria con modifica della Legge Marzano) con la nascita di una newco che avrebbe continuato a far volare la compagnia di bandiera, alleggerita dal piombo che, dalla liberalizzazione del mercato e privatizzazione conseguente in poi, ha appesantito sempre di più la nostra vecchia gloria aerea (61 anni).

Sul piano economico si sta giungendo comunque ad una soluzione sulla quale, per averne viste sul mio lavoro di tutti i tipi, non mi scandalizzo più di tanto.

La soluzione di Fenice non è obbiettivamente diversa da quella di Air France-Klm in quanto l’azione Alitalia sarebbe stata concambiata con azioni della società franco-olandese per cui all’ora avremmo partecipato tutti al più grande vettore mondiale ed ora, tramite la Cai, lo stesso vettore franco-olandese, la Lufthansa o la British Airways, sono disponibili da subito a partecipare, anche con quote significative, al rilancio della compagnia italiana.

Gli investimenti di “denaro fresco” fra le due ipotesi di rilancio sono sostanzialmente analoghe se si tiene conto che Airfrance-Klm aveva messo in campo 1,8 miliardi di euro “ritirando” la nostra compagnia di bandiera comunque appesantita, mentre l’esborso di Cai sarà di circa 1 miliardo per una compagnia molto più leggera.

Fra l’altro questo spiega anche perché solo in questo caso un pool di imprenditori italiani è sceso in campo: Roberto Colaninno è certamente stimolato da una impresa ed una sfida impegnative, ma una volta definito l’accordo sa perfettamente che non correrà il rischio di restare in mezzo al guado come gli accadde con Telecom Italia, troppo condizionato dal potere politico e dai soci che lo costrinsero a vendere – contro voglia - alla Pirelli.

Per gli altri soci, la scesa in campo, nasconde a malapena altri interessi convergenti su questa iniziativa o su altre che sono già state decise durante le ultime settimane del Governo Prodi (Expo).

Unica differenza tra l’ipotesi Aifrance-Klm e Fenice stà nel fatto che la seconda riesce a “salvare” pure AirOne in quanto la Cai le comprerà alcune rotte ed aerei, permettendole di riequilibrare la sua situazione finanziaria.

Al riguardo però evidenzio che AirOne era un competitor di Airfrance-Klm !

Non dimentichiamo infine i 300 milioni di euro messi sul tavolo dal Governo Prodi per mantenere in aria Alitalia e che non potranno essere utilizzati per il suo rilancio, denaro imputabile comunque, obbiettivamente, alla iniziativa Fenice; né dimentichiamo la causa intentata da Malpensa per 1,2 miliardi di euro che comunque resteranno – nell’ipotesi Fenice – sulla groppa dello Stato: a babbo morto !

Sul piano tecnico le differenze cominciano ad evidenziarsi un po’ di più perché con il vettore franco-olandese si riduceva l’hub alla sola Fiumicino con diminuzione delle rotte attuali(fatti entrambi che la “vecchia” Alitalia stava in parte mettendo in atto), mentre nel piano Fenice abbiamo una vera regionalizzazione della compagnia di bandiera, con l’eliminazione anche dell’ hub di Fiumicino ed una maggiore diminuzione di rotte e voli rispetto a quanto ipotizzato da Airfrance-Klm.

Questo fra l’altro spiega – in parte - i minori esborsi programmati dalla Cai: meno voli, meno aerei, meno personale, meno costi e quindi meno investimenti!

Sul piano sociale, dolente nota, le differenze si acutizzano non poco non soltanto per il fatto che le due ipotesi producono diversi, drammatici, risultati in termini di esuberi occupazionali, ma in primo luogo perché nel progetto Fenice, proprio perché è una newco, Cai acquisterà gli assets che le sono più utili, fra cui i dipendenti, mentre i restanti sono destinati ad essere sostenuti dai cosiddetti ammortizzatori sociali.

La cosa non è da poco perchè invece con Airfrance-Klm la maggior parte dei dipendenti (11,2 mila) restava in Alitalia mantenendo anzianità, tfr,gradi,ecc, i dipendenti di Az Service spa (4,5 mila) restavano nella loro azienda la cui proprietà passava a Fintecna spa.

L’accordo con si sindacati si è arenato per i 2,2 mila dipendenti in mobilità e mi appare tuttora incomprensibile perché Sindacati, Airfrance-Klm e Governo non siano riusciti a trovare una soluzione onorevole ed accettabile.

Nell’ipotesi Fenice è chiaro quanti saranno i dipendenti che ricominceranno daccapo nella nuova Alitalia(circa 11 mila), mentre è iniziato un balletto di cifre (chi dice 4,5 mila chi dice 7 mila) e soluzioni (Poste, Catasto, imprese private con agevolazioni ad hoc, ecc) per coloro che non parteciperanno al rilancio della compagnia di bandiera.

Nessuno parla di AZ Service preposta alla manutenzione degli aerei che, qualsiasi sia il proprietario della compagnia di bandiera, dovrà continuare ad essere erogata.

In questo caso l’intervento dei Sindacati sarà ben più complicato perché diverso dalla precedente ipotesi in quanto che si deve trattare sulla allocazione di tutti i dipendenti del gruppo Alitalia, allocazione sulla quale gli interlocutori sono sia la Cai che il Commissario straordinario Fanozzi che il Governo in carica.

Sul piano commerciale Colaninno, vista la sfida intrapresa, bene fa a sostenere la sua iniziativa per mantenere l’italianità della compagnia, ma nel contempo “confessa” che occorre un partner industriale internazionale di settore e che, una volta raggiunto nel medio periodo l’obbiettivo di lancio e stabilità (cinque anni ?), non esclude di farsi da parte.

Nulla contro questo imprenditore di cui ho grande stima, ma altri hanno invece sbandierato l’italianità ai quattro venti ben sapendo che questo non è un principio irrinunciabile: se ce ne sono le capacità e le condizioni bene, ma se questo non è proprio possibile (soprattutto in periodo di alti prezzi dei combustibili) non si può fare tanto gli schizzinosi.

Nel recente passato Klm ci ha mollato per Airfrance, Swissair è stata acquisita (dopo analoga operazione) da Lufthansa ed oggi British Airways è alla ricerca spasmodica di sposarsi con Iberia o addirittura con la nuova Alitalia.

Ragion per cui l’italianità è un elemento da tenere in considerazione, ma non può essere una condizione sine qua non: in fin dei conti agli italiani che volano e ai turisti che vanno e vengono dall’Italia interessa il servizio, la sicurezza ed il prezzo.

Quel che più mi fa imbufalire è però l’aspetto politico della possibile risoluzione della crisi Alitalia.

Infatti si sta rivoltando come una frittata l’effetto qualitativo dell’intervento del Governo in carica.

Innanzitutto l’attuale coalizione ha già governato per un quinquennio, ma del problema si è occupata ben poco; poi sbandiera decisionismo ed efficienza facendo passare il progetto Fenice, come un grande risultato politico, mentre in realtà risolve una crisi, ma non mantiene nessuna promessa fatta in campagna elettorale.

Il piano tecnico e commerciale che si raggiungerà è giusto l’opposto di quello tanto vagheggiato (in primavera Lega e Malpensa hanno fatto i diavolo a quattro ed oggi Alemanno paventa gravi preoccupazioni per l’eliminazione dell’hub di Fiumicino).

L’italianità sappiamo fin d’ora che prima o poi se ne volerà via per cui la prima promessa è già disattesa, se pur in prospettiva.

L’aspetto sociale presenterà risultati anch’essi opposti a quando auspicato perchè di lavoratori instabili ce ne saranno parecchie migliaia in più e se questo può rientrare nella logica di una mera ristrutturazione aziendale, questo non è stato detto a chiare lettere e soprattutto non sono state studiate soluzioni convincenti né per gli interessati né per l’opinione pubblica.

La funzione sindacale - che pure ha le sue responsabilità nella crisi - poi è svilita a ruolo di semplice comparsa in funzione – si dice - del poco tempo a disposizione (Alitalia commissariata e con poco denaro in cassa), mentre in realtà il Governo in carica nasconde l’intenzione di considerare il sistema rappresentativo dei lavoratori in genere come un fattore di freno allo sviluppo e quindi del tutto incidentale (ricordo l’intenzione dell’abolizione dell’ art.18 dello Statuto dei Lavoratori); questa intenzione ed obbiettivo sono stati - anch’essi – nascosti all’elettorato di riferimento che sappiamo essere costituito anche da dipendenti e pensionati.

L’aspetto economico infine è un altro grande flop perché il progetto Fenice non può tener conto di fatti che non lo riguardano; la spesa degli ammortizzatori sociali di qualsiasi genere per il personale in esubero è ben più grande della soluzione Airfrance-Klm; il prestito ponte di 300 milioni di euro si è liquefatto confluendo nei mezzi propri di Alitalia.

Ma soprattutto il commissariamento di Alitalia purtroppo presenterà un conto assai salato ad oggi difficilmente quantificabile, ma con danni certi per investitori, soci di minoranza, obbligazionisti, fornitori e pure per l’Inps (i crediti da lavoro che sono privilegiati verranno comunque soddisfatti da quest’ultima).

Concludendo posso confermare che la ristrutturazione di Alitalia deve perseguire un recupero di efficienza ed efficacia per poter continuare a volare , ma è fuor di dubbio che la soluzione paventata in campagna elettorale ha – si spera – raggiunto questo obbiettivo con il progetto Fenice, ma a costi mastodontici per le casse dello stato e per la collettività, suoi quali - politicamente – non sembra assolutamente dover pagare alcun prezzo.