venerdì, ottobre 31, 2008

SCUOLA D’ ECCELLENZA O SCUOLA D’ELITE

La consestazione studentesca che è motata già da qualche settimana e la manifestazione sindacale del 30 ottobre nelle principali piazze (oltre a Roma non dimentichiamo Milano) contro il Decreto Gelmini e contro e la Legge Finanziaria triennale di Tremonti – al di là dei numeri – mostrano una profonda insofferenza e preoccupazione che investe la scuola italiana e quindi una importante fetta dell’opinione pubblica costituita da famiglie, studenti e insegnanti di ogni ordine e grado nonché il personale non docente.

Non sono certamente le novità che possono preoccupare questa fascia di opinione pubblica ( ma anche la restante, imprese comprese, che beneficiano della formazione scolastica degli italiani) perché le novità, se ben spiegate per modalità ed obiettivi, dovrebbero portare sempre a miglioramenti significativi sia per le casse dello stato che per tutta la comunità.

Obbiettivamente il mondo della scuola nella sua totalità (studenti, insegnanti, famiglie non docenti) sa riconoscere perfettamente dove si può migliorare, dove si può economizzare, dove si può aumentare l’efficienza e migliorare l’eccellenza, dove ci sono atti, fatti e comportamenti da eliminare, ma non ha ovviamente la capacità e soprattutto il potere per cambiare; a questo ci deve pensare lo Stato che ha il preciso dovere di provvedere all’istruzione ed alla crescita culturale del paese.

Ecco perché lo Stato attraverso i suoi strumenti di governo deve analizzare e spiegare preventivamente i percorsi che intende attuare per cambiare le cose che non vanno e che sono riconosciute anche dal mondo della scuola e dal ceto politico, con i quali è necessario però confrontarsi per la buona riuscita del cambiamento.

Invece il Governo Berlusconi, con il vecchio assioma, maggioranza-decisione-effetto, nasconde invece, o vorrebbe nascondere, i risultati che non sono, alla fine della fiera, per nulla coincidenti agli obiettivi dati e promessi.

Qui non si tratta di sentirsi, se pur maggioritari, sotto tutela, ma proprio perchè maggioritari, forti delle proprie certezze, si dovrebbe avere la serenità di sostennere la bontà delle proprie idee e proposte.

Apparentemente quindi sembra una azione di razionalizzazione per eliminare sprechi e contenere la spesa, ma in realtà sono tanti piccoli elementi (che fanno una valanga) che prefigurano risultati di tutt’altro genere soprattutto nella scuola superiore e nell’università.

Innanzitutto se si vuol affrontare seriamente il mondo scolastico il Governo in carica, come qualsiasi altro, deve pensare all’oggi e soprattutto al domani per cui non mi risulta assolutamente che abbia preventivato quanti saranno gli studenti di ogni ordine e grado che, nei prossimi dieci anni per esempio, avranno necessità di istruzione e conseguentemente che ampiezza dovrà avere il corpo docente; sulle proprie decisioni va tenuto conto quindi se le previsioni saranno di crescita, di decrescita o stabili.

L’analisi andrà diversificata – oltre che per località - ulteriormente soprattutto per le superiori e l’università dove gli indirizzi sono legati alla scelta degli studenti stessi secondo le loro aspettative ed orientamenti culturali e didattici; la cosa non è facile, ma questo è proprio il mestiere di chi gestisce il Ministero della Pubblica Istruzione, ricordando però che non si può arrogare il diritto di predeterminare i traguardi didattici da perseguire ( più ragionieri che ingegnieri, più architetti che informatici, ecc o viceversa) .

Quindi se si decide che il tour over riguarderà solo il 20% degli insegnanti che andranno in pensione e questo corrisponde ad una futura e prossima minor necessità d’istruzione per un calo vistoso degli studenti, questo va detto a chiare lettere; se invece si risponde che non ci possiamo permettere una spesa simile, ciò sta a significare che pur al netto di accorpamenti in classi più numerose, lo scopo in realtà è quello di abbassare la qualità dell’istruzione già a partire dalle scuole elementari.

L’obbiettivo non è la migliore qualità della scuola, ma la diminuzione dei costi con meno insegnanti, con l’eliminazione del tempo pieno, con l’introduzione del maestro prevalente e con classi – conseguentemente - con formazioni “oceaniche” e didatticamente ingovernabili.

Inutile dire che le migliori basi formative (ed educative) partono proprio dalla scuola elementare per cui fare errori a questo livello significa rendere più fragili le formazioni successive (medie e università) mancando clamorosamente all’obbiettivo di una migliore scolarità e di una migliore preparazione dei futuri lavoratori.

Aggiungo poi che se queste sono le prospettive, le famiglie italiane cominceranno a farsi qualche conto in tasca e chi potrà ricorrerà alla scuola privata ed ancora una volta si sostituirà l’opportunità con il merito.

E’ pur vero che “con meno di fa di più” (o la necessità aguzza l’ingegno), ma i cambiamenti non possono essere radicali; non vanno trattati con freddezza, ma vanno divulgati, discussi, spiegati coinvolgendo il mondo della scuola per condividere obiettivi che devono essere convincenti; la stessa riforma Moratti, in molti tratti non pienamente condivisibile, è entrata in funzione dopo una ampia e lunga divulgazione e discussione e non nel giro di qualche giorno (o di qualche ora come nel caso della legge finanziaria di Tremonti).

Nel settore universitario, proprio con i pesanti tagli della Finanziaria e con l’introduzione della trasformazione degli atenei in fondazioni si vuole accelerare il progetto di rinunciare da parte dello Stato in primo luogo al proprio dovere e in secondo luogo di ridurre nei fatti l’accesso al mondo universitario.

E’ vero che ci sono troppe università, troppe facoltà e troppi indirizzi, che esiste e persiste la baronia, ma pensare che “tagliando i viveri” tutto si aggiusti e si trovino percorsi virtuosi e l’efficienza è pura demagogia (ingenuità strumentale).

Riguardo la baronia universitaria, nonostante le grandi contestazioni del passato, non è stata debellata perché i suoi comportamenti (nepotismo, clan ristretti, favoritismi, ecc) non sono certo diversi da quelli numerosi della restante società civile dove le camarille e le furbizie spopolano, dove gli sprechi sono numerosi, dove il ceto politico dal Parlamento agli enti locali non sempre è perla di integrità e correttezza.

Voler far fare quindi il “lavoro sporco”ai privati tramite le fondazioni, servirà a poco: sostituiremo le baronie pubbliche con quelle private e non è assolutamente detto che la qualità aumenterà; soprattutto chiuderemo di parecchio l’accesso alle università raggiungendo il grande obiettivo di ridurre la quantità dei prossimi laureati.

Splendido: oggi i neorauleati non trovano facilmente lavoro stabile ed addirittura emigrano; domani chiuderemo o apriremo gli accessi a seconda del bisogno, ricorrendo magari a neolaureati di altri paesi, mentre i nostri giovani staranno a far la calzetta.

Il mondo universitario invece va affrontato invece in altro modo (sempre con l’obbiettivo di contenere o ridurre i costi): oltre all’autonomia economica va introdotto il controllo – preventivo – delle iniziative degli atenei; ci si è mai domandati perché sono aumentate università, facoltà ed indirizzi di studio ?

Tutto questo non è nato perché sollecitato dalle esigenze della società civile, ma perché questa proliferazione faceva comodo alle politiche di sviluppo del territorio per ricercare consenso politico, scardinando ed addomesticando la riforma universitaria del 1999 (sia chiaro: questa tigre l’hanno cavalcata un po’ tutti).

Qui si che si può far molto partendo da possibili accorpamenti per ridurre il numero delle università, delle facoltà e degli indirizzi di laurea; programmando struttura didattica e piani di studio perché queste sono le cause che hanno prodotto la crescita esponenziale dei costi.

Per la ricerca vanno ricercati canali di collegamento con la struttura economica del paese o del territorio (come in Germania) perché ci sia simbiosi tra ricerca ed applicazione, dove l’una influenza l’altra e viceversa e dove si possono trovare anche risorse aggiuntive.

Se invece si continua per la strada vecchia ecco che si alimentano le storture della baronia universitaria dove la potenza del barone è costituita dal numero di ricercatori ( più sono meglio è) incrementando una auto referenzialita’ a detrimento di altri comparti didattici dove la ricerca invece dovrebbe e potrebbe essere potenziata.

Tornando alle manifestazioni quindi la gente ha perfettamente capito che non crede assolutamente alle enunciazioni del governo che ha parole sostiene di agire per una Scuola d’eccellenza, mentre in realtà sta’ operando per una Scuola esclusiva e d’elite.

lunedì, ottobre 27, 2008

25 OTTOBRE 2008: SI RIPARTE ?

La manifestazione del PD a Roma, sabato scorso, rappresenta un fatto decisamente nuovo sullo scenario politico italiano che merita analisi obiettive, ma soprattutto può costituire una premessa per cominciare ad ottenere adesioni crescenti e convincenti da parte dell’opinione pubblica e dell’elettorato.

Il fatto che sia una novità degna di considerazione lo dimostrano sia le reazioni della maggioranza e che le contro repliche degli esponenti PD; quel che non conta assolutamente nulla comunque è il fatto che le battaglie sulle cifre di adesione costituiscono un mero gioco fra le parti che possono rasentare il ridicolo (a seconda dei casi una piazza – che sia Circo Massimo o San Giovanni - può contenere un numero di persone significativo o la sua decima parte).

Quel che conta invece è il fatto politico che rappresenta (come altre nel recente passato hanno rappresentato) un fatto politico di rilievo e soprattutto la conseguenza che questo può avere sul piano pratico e concreto.

Quel che è evidente è l’atteggiamento – irritato ed infastidito – della maggioranza, partendo dal suo leader, che minimizza ed aggredisce reagendo agli attacchi dell’opposizione, rispondendo per le rime con l’intenzione quindi di consolidare l’ampio consenso di cui sembra godere.

Chi governa questa forte novità politica ha una grande opportunità da giocare e sarà bene non si attardi più di tanto in queste schermaglie perché la manifestazione di Roma deve essere un punto di partenza, come lo sono state le Primarie nell’ottobre 2005 per la elezione del leader dell’Unione – Prodi e le Primarie dell’ottobre 2007 per la elezione del segretario – Veltroni – del neonato PD.

Intendo dire che come nel recente passato questi citati eventi hanno costituito la base per la costruzione di un nuovo progetto politico, anche questa volta, con modalità diverse dovrà avvenire qualche cosa di analogo.

Nel 2005 con Prodi si è costruito un progetto – l’Unione - da utilizzare nell’elezioni del 2006, ma il progetto non ha dato i risultati sperati, generando una ampia alleanza, ma non maggioritaria e per di più piuttosto disarticolata; questo ha prodotto la sua implosione.

Nel 2007 la nascita del PD aveva anche l’obbiettivo di semplificare e quindi consolidare la stabilità della maggioranza di governo; in realtà questo ha un po’ spaventato i partiti minori che hanno preferito curare il loro particolare, non capendo il pericolo che stavano correndo: infatti con le elezioni anticipate sono stati sostanzialmente liquefatti dall’elettorato.

Il PD invece ha retto anche se il suo recupero di consensi era un obbiettivo ambizioso, ma per nulla facile.

Quello che ha insegnato il cambio di governo e di maggioranza è che per l’elettorato i programmi contano di più delle alleanze nel senso che le alleanze devono essere al servizio del programma e non viceversa, poiché questo significherebbe (ce lo insegna anche il governo Berlusconi II e III) uno sviluppo del programma di governo in modo ondivago cioè contraddittorio e molto spesso inconcludente.

In effetti è già difficile e complicato governare, ma se poi ogni componente della coalizione pretende di piantare la propria bandierina ecco che il risultato che ne esce può risultare un ectoplasma incomprensibile e inattuabile o inefficace.

Questa è stata la mossa vincente del Centrodestra sul Centrosinistra anche se la sua azione di governo sta dimostrando sempre di più i suoi limiti perché in qualsiasi settore intervenga inserisce cambiamenti estremamente discutibili o inefficaci.

Non c’è settore dove il governo in carica sia intervenuto o intervenga in modo approssimato, contradditorio o chiaramente nell’interesse di pochi, non certo della grande maggioranza (si parla del 70/72% !) di consensi di cui si pavoneggia.

Con l’Ici, invocando un principio di non tassazione sulla proprietà di prima casa, si è fatto un grande regalo – con il suo azzeramento – ai ceti più ricchi; con la robinwood tax si vorrebbe finanziare i ceti più deboli una nuova tessera annonaria, ma per il momento ha prodotto una minor diminuzione dei prezzi dei combustibili (per le banche staremo a vedere quali saranno gli utili – eventuali – del secondo semestre 2008 ).

Su Alitalia, dopo il guazzabuglio iniziato nel periodo elettorale, la storia non è ancora finita: ci sono da sciogliere i nodi sorti con le valutazioni della UE sul prestito ponte e si prefigura una alleanza internazionale con vettori di peso, alleanza che con la scelta dell’italianità si voleva evitare.

Potremmo continuare su tanti altri temi dove le soluzioni – al netto degli slogan lanciati da vari pulpiti (Berlusconi, Brunetta, Maroni, ecc) - mostrano la loro limitatezza e soprattutto il vero reale obiettivo: privatizzare tutto, alleggerire il peso dello stato su tutto, e lasciare al privato l’iniziativa anche nei settori sensibili come l’istruzione.

Qui si innesta, se ben condotta, l’azione politica che esce dalla manifestazione di Roma non certo per sostenere uno stato centralista, ma trovare soluzioni eque per tutti.

Poiché la maggioranza è ben solida - e tenterà di tutto per dimostrare il suo decisionismo –

l’opposizione dovrà reagire non solo denunciando, non solo creando alleanze su ogni singolo punto solide, ma dovrà proporre alternative da divulgare con tutti i mezzi, fra l’opinione pubblica e nelle istituzioni.

E’ e sarà certamente una rincorsa faticosa e difficile, ma è l’unica strada – ricercando minimi comune multipli – per denunciare i veri obbiettivi di questo governo che dietro l’acclamato principio di risparmiare, di razionalizzare, di dare ai poveri togliendo ai ricchi, vuole stravolgere la struttura dello stato favorendo in realtà una elite dove i poveri saranno sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi, mentre la middle class si sta progressivamente liquefacendo.

In questo momento di crisi finanziaria ed economica mondiale la maggioranza in carica sta agendo con nonchalance in difesa delle banche e dei risparmiatori e si prepara a soccorrere le imprese, ancora una volta disinteressandosi di milioni di lavoratori (dipendenti ed autonomi) e di pensionati.

E’ veramente singolare: si vuol privatizzare lo stato e si vuol nazionalizzare – anche se temporaneamente – il privato !

Sulla difesa del risparmio non dobbiamo farci prendere per il naso per l’ennesima volta: in 20 anni di inflazione galoppante a due cifre il risparmio è stato falcidiato, poi è stato – anche se in modo meno generalizzato – eroso dal collocamento di obbligazioni Cirio, Argentina e Parmalat ed oggi con i prodotti “strutturati” scopriamo clausole sorprendenti che rischiano di lasciarci con un pugno di mosche in mano.

Bene quindi gli interventi, ma vanno accompagnati da regole e penalità perché chi ha sbagliato paghi e perché in futuro simili vizietti non debbano più ripetersi.

Sull’andamento dell’economia poi che si sta velocemente avvicinando a tempi di deflazione e stagnazione si preannunciano tempi duri, forieri di forti sacrifici.

Ebbene se si preannunciano tempi grami la cinghia la debbono tirare tutti e chi può deve metter mano al portafoglio: troppo comodo chiedere moderazione salariale (anche qui cercando di scompaginare i rapporti tra le principali centrali sindacali) e dall’altro trovare risorse a sostegno dell’impresa.

Il PD e i suoi – spero – alleati hanno una grande opportunità oggi: quella di incidere da minoritari sulle scelte del governo per evitare derive economiche pericolose per gli italiani (tutti), grazie anche alla disomogeneità del quadro politico europeo ed americano (soprattutto).

Questo non solo e soltanto per creare una futura forza politica di governo, ma per evitare errori e scelte delle quali dovremmo tutti – sostenitori di maggioranza ed opposizione – pentire prossimamente e amaramente (“deregulation” su Kyoto per l’Italia).

Ci si lamenta perché calano i consumi interni, ma i prezzi rimangono ben alti: delle due l’una o si aumenta il redito disponibile dei consumatori o si calano i prezzi (succede così anche per il petrolio dove il profitto rimane anche se il prezzo cala per la flessione della speculazione e dei consumi e nonostante l’apprezzamento del dollaro).

giovedì, ottobre 23, 2008

DALLA CRISI FINANZIARIA ALLA CRISI ECONOMICA: LE RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA

Occorre innanzitutto dire che la crisi finanziaria negli U.S.A. è scoppiata perché la Finanza si è sempre più sviluppata in questi ultimi anni in modo autoreferenziale, slegata cioè dall’ Economia reale attuando la deregulation tanto cara a Bush e ai suoi predecessori illustri come Reagan (e la Thatcher nel Regno Unito) che puntava sulla più alta libertà di manovra e azione, quasi a significare che questo sistema fosse in grado di ritrovare al suo interno capacità di auto controllo.

A questo va aggiunto il rallentamento e ripiegamento dell’ Economia americana che, come ovunque, ha andamenti ciclici, per cui si è prodotto un risultato esponenziale che somma gli effetti negativi della prima con quelli della seconda.

In un Mercato globale è evidente che questo fenomeno ha decisi effetti su tutte le altre economie (pure la Cina, il cui Pil cresce meno degli anni passati) per cui, come un virus, la crisi finanziaria e quella economica si trasmessa è con effetti che sembrerebbero analoghi se non (speriamo) identici.

Le cause della crisi finanziaria hanno influenzato il sistema europeo dove le regole peraltro sono più stringenti, ma dove esistono, è bene precisarlo, comunque errori e vizi domestici.

Anche qui infatti la Finanza – se pur con maggiori vincoli – ha offerto strumenti nuovi in modo generalistico confidando che la concorrenza consentisse l’auto apprendimento da parte di imprese e risparmiatori.

Non è così: la realtà ha dimostrato che ai prodotti sofisticati di raccolta o di impiego non corrisponde assolutamente una adeguata e correlata conoscenza da parte dei risparmiatori, degli imprenditori e delle famiglie che possono aver utilizzato per la scelta il sistema comparativo, ma hanno molto spesso non percepito i rischi potenziali connessi.

Infatti oggi molti risparmiatori, famiglie ed imprese (compresi gli enti pubblici) sono spaventati dalla loro situazione finanziaria che evidenzia criticità che nemmeno hanno ipotizzato al momento della scelta e che il sistema del credito non ha molto spesso lasciato trasparire (non potendo peraltro prevedere tutti i casi che il futuro potrebbe riservare).

Intendo dire che chi “gioca” in borsa direttamente sa perfettamente che rischi può correre, ma quando ad un risparmiatore, ad un impresa, ad una famiglia (o ad un ente pubblico) viene proposto un prodotto strutturato, questo presenza componenti complesse e complicate che non sono facilmente comprensibili e danno risultati diversi da quelli attesi in una situazione di andamento lineare dell’economia e della finanza; figurarsi poi quando economia e finanza sono sottoposte a shock: i risultati si possono rivelare drammatici e senza protezione alcuna.

La crescita economica sta rallentando sempre di più e la prospettiva, purtroppo, è addirittura di una sua regressione già negli U.S.A. e prossimamente in Europa, accelerata, come detto, dalla crisi finanziaria.

In questi contesti la responsabilità della politica sono enormi perché non è la prima volta che emergono crisi sia finanziarie che economiche (anche se non di questa portata), ma una volta superati i punti critici proprio la politica si è disinteressata di questi problemi, non completando l’opera di regole e programmi che ci potessero meglio mettere al riparo da future e possibili nuove crisi.

Negli U.S.A. l’economia ha cominciato a fornire segnali di ripiegamento alla fine del secolo scorso (secondo mandato Clinton) ed infatti al cambio di presidente (novembre 2000) la recessione era decisamente in atto ed ha messo a nudo la fragilità della new economy che sul piano finanziario ha presentato conti assai salati ed ha influenzato anche la Finanza europea .

In quel periodo, in Europa, la crisi economica è avvenuta qualche anno dopo, ma con andamenti difformi: ha colpito infatti di più Germania, Francia e Italia e molto meno Spagna e Regno Unito, ma le azioni politiche dei paesi in regresso si sono concretizzate in modo diverso; addirittura l’Italia ha semplicemente (2001-2006 con il IV Governo Berlusconi) cavalcato l’onda senza sviluppare un nuovo progetto di politica economica.

Dopo questa epoca economia e finanza hanno ripreso la loro crescita anche se in modo disatricolato visto che gli Usa sono cresciuti molto meno dell' Europa e questo ha prodotto lapprezamento dell'Euro sul dollaro.

In Italia pur in assenza di una politica economica è stata l’impresa nel suo insieme che ha trovato la capacità di adeguarsi e sfruttare – anche troppo – l’opportunità data dal rallentamento dell’economia (fino al 2005): i produttori di “bottoni” aggrediti dal l’import cinese si sono trasformati in produttori di macchinari per la produzione di bottoni e l’export è aumentato pur dovendo misurarsi con un dollaro sempre più svalutato, puntando su prodotti di qualità.

Già, proprio così: la mancanza di una nuova politica economica ha consentito una colossale redistribuzione di ricchezza accentuando le differenze economiche fra gli italiani (gettando sull’incolpevole Euro tutte le responsabilità) ed oggi alla vigilia di una nuova, ciclica, crisi economica quel che non si è voluto fare a suo tempo presenta un conto salato comprensivo di interessi.

Del resto oggi sul piano finanziario sta avvenendo proprio questo: l’amministrazione Bush e quella Ue stanno mettendo in campo azioni che costano qualche trilione di euro per riparare i danni commessi dalla finanza “creativa”, ricreare fiducia e tutela del risparmio; non sono operazioni da poco sia per l’entità sia per il modo, visto che sta avvenendo una – se pur temporanea – nazionalizzazione delle banche dei principali stati liberisti (Usa, Regno Unito, Germania, Francia).

A questo vanno aggiunte anche le azioni per frenare il rallentamento, la stagnazione dell’Economia, azioni che sembrano però essere delle semplici toppe, del tutto congiunturali e molto poco strutturali (soprattutto in Italia).

Non si sente infatti parlare di nuove regole nel cui perimetro può e deve agire la Finanza: la deregulation ha permesso porcherie gigantesche, ma non si sente parlare di nuove “regole del gioco” e questo significa che, una volta passato il maltempo, non siamo assolutamente al riparo da nuovi, futuri sfracelli.

Un passo determinante ed utile in questo senso sarebbe quello di attribuire alla Ue non più e non solo funzioni di coordinamento, ma un vero e solido strumento di governo comunitario che imporrebbe però ai singoli stati aderenti di trasferire l’autonomia alla quale non vogliono rinunciare.

Addirittura in questi giorni si assiste a dichiarazioni decisamente inopportune poiché rischiano di innescare fraintendimenti da parte dell’opinione pubblica; mi riferisco ad interventi del Presidente del Consiglio italiano relativi agli indici di solidità delle banche italiane che divulgati a borsa aperta risultano assai pericolosi per il regolare svolgimento delle trattazioni.

Questo tema va affrontato, se necessario con cautela e riservatezza e vanno prese iniziative - se necessarie - tempestive, ma non vanno certamente fatti proclami, soprattutto quando si è appena stabilito un programma di supporto del Governo – illimitato – in caso di necessità comprovata.

Sul piano economico si parla di sostegni all’industria (auto), di incentivazioni di tutti i tipi, ma questo dimostra che non vogliamo far tesoro delle esperienze (dei danni) del passato per favorire un miglior futuro: la flessione dell’economia deve essere utilizzata come una opportunità, per creare aggregazioni e sinergie, per ricercare efficienza, per attuare trasformazioni di processo e di prodotto.

Eppure il recente passato ha dimostrato che stimolare la ricerca di nuove soluzioni rifiutando aiuti di stato (peraltro vietati dalla Ue) ha dato risultati: la Fiat ad esempio ha invertito il suo declino ed oggi si presenta vaccinata, meglio di altre case automobilistiche, in questa fase di stagnazione del settore.

In altri settori come quello aeronautico, con Alitalia invece si è voluta ricercare una formula a tutti i costi “protezionistica” (per motivi elettoralistici), ma già in questi giorni sta mostrando i suoi limiti con la ricerca di alleanze con partner industriali sempre più obbligate e vengono pure colpite dalla Ue le ultime azioni, poste in essere per tenerla in aria (prestito ponte trasformato in mezzi propri).

Emerge per contro la paura che nella economia europea ed italiana si possano inserire iniziative finanziarie straniere (fondi sovrani), quasi si temesse un neo colonialismo al contrario.

E’ certamente un fenomeno, teorico, da non escludere, ma caso mai si possono predisporre regole di accesso e di vincolo per governarlo, utilizzandone i vantaggi: del resto si tratterebbe di grandi flussi finanziari che ritornerebbero al mittente.

Sempre sul piano economico, in Italia, poi assistiamo ad azioni difensive sul programma europeo di risparmio energetico e riduzione dei gas.

Si pretenderebbe un attenuamento ed allungamento del programma studiato da tempo, per poter sostenere indirettamente la capacità produttiva e quindi l’economia, nascondendosi al fatto che gli investimenti in questo settore e per questi obbiettivi, sono ancora e invece grandi opportunità non per produrre meno, ma per stimolare a produrre meglio ed in modo diversificato.

Ci sono imprese che da anni – intervenendo sul risparmio energetico e gestione dei rifiuti – hanno costruito il loro secondo business (accanto a quello principale); ci sono aziende come la Fiat che da un quarto di secolo progetta le sue autovetture pensando anche al loro smaltimento quanto andranno in rottamazione (la prima fu la storica Panda).

Voler pensare di allentare le briglie quindi apparentemente sembra voler dare un vantaggio, ma in realtà si favorisce una minor attenzione al problema energetico e dell’emissione dei gas (che deriva soprattutto dalla produzione di energia), togliendo e diminuendo il senso di responsabilità sociale che deve interessare tutti i fattori produttivi.

Caso mai, su questo tema come su altri, occorre vigilare con molta attenzione affinché non vengano scaricate sugli indifesi e sui soggetti economicamente pi fragili le scorciatoie, per non metter mano al proprio ingegno ed al proprio portafoglio.

Di esempi ne abbiamo molti, ma uno su tutti tocca un po’ tutti noi: i sempre più numerosi rapporti di lavoro “flessibili” sono nei fatti stati trasformati in rapporti di lavoro “incerti”; questo ha influito poco sulla crescita del nostro Pil (la produzione è meno efficiente e di quantità) ed i redditi di lavoro derivanti non consentono per quantità e stabilità una crescita armonica dei consumi soprattutto di beni durevoli.

Concludendo la situazione critica finanziaria ed economica va governata con intelligenza e logica, senza cedere al desiderio di voler avvantaggiare o proteggere i più forti o ingraziarsi parte dell’opinione pubblica; diversamente ci troveremo, ancora una volta in un gioco delle parti, dove ufficialmente ci si strapperà le vesti o si mostreranno i muscoli, ma in realtà cambiamenti radicali non ce ne saranno e dovremo attendere la prossima futura crisi finanziaria ed economica per contare i danni e sproloquiare – ancora una volta – sui rimedi.

sabato, ottobre 04, 2008

FEDERALISMO FISCALE: CI VORREBBE SAN TOMMASO

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge sul federalismo fiscale con una presentazione ad effetto da parte del Ministro Tremonti insieme alla nutrita squadra di Ministri (Calderoni, Fitto, ecc.), ma con la felicità misurata di Bossi (“bene, ma ora niente scherzi) e con Pd ed Udc che parlano di scatola vuota.

Lo stesso Tremonti dice che ora la palla passa al Parlamento per la sua discussione ed approvazione e soprattutto che occorreranno i decreti attuativi per i quali il Parlamento si dovrà impegnare nei prossimi due anni; aggiunge inoltre che l’entrata in vigore, effettiva, del federalismo fiscale ci vorranno almeno 5 anni e gli effetti tangibili e concreti li vedremo nel quinquennio successivo.

Tanto per essere realistici quindi siamo alla “posa della prima” pietra, importante certamente (se non si comincia non si finirà mai), ma ora l’importare è capire e verificare come questo progetto si concretizzerà nei fatti.

Una considerazione di premessa sull’iniziativa: penso che questo progetto sia dettato non solo e soltanto per attuare una parte della Costituzione, ma soprattutto perché, non potendo smontare l’anacronismo delle Regioni a statuto speciale (che avevano una logica al momento della nascita della repubblica), si è pensato bene di farne nascere altre 16, mettendo il cappello del federalismo.

Si sono introdotti poi dei concetti o degli obiettivi per attuare questo federalismo, ma non è assolutamente vero che, automaticamente, questi possano essere raggiunti.

Responsabilità fiscale degli organi locali
Innanzitutto la responsabilità si sposta da Roma ai capoluoghi di Regione quindi si avvicina molto di più alle comunità, ma non affatto vero che questo significhi maggior controllo da parte delle popolazioni sul buon governo regionale e delle altre amministrazioni locali.

Decentrare quindi la capacità impositiva agli enti locali che trasferiranno poi una quota allo Stato centrale per sostenere le sue funzioni e alle regioni che sono in difficoltà non significa assolutamente spender bene le risorse prodotte in ogni regione.

Rispondere direttamente al proprio elettorato è una enunciazione di principio, ma non è necessariamente automatico che un malgoverno significhi bocciatura: di esempi ne vediamo spesso eppure non ci sono sempre bocciature conseguenti, anzi è più facile vedere un cambio di cavallo, con il mantenimento però della stessa coalizione di governo, e dello stesso livello di inefficienza.

Quando si vota – parliamoci chiaro – non è solo il buon governo che premia, ma entrano in gioco molte altre componenti anche del tutto legittime.

Caso mai avrà molta più efficacia, per spender bene e pure risparmiare (eliminando sacche di improduttività o prezzi pilotati come nella Sanità), se usato con sapienza, l’applicazione del principio che per l’incremento della spesa non si debba più far riferimento alla spesa “storica”, ma alla determinazione dei migliori prezzi per servizio.

Questo caso mai è il grosso lavoro da fare, sul quale potranno nascere “assalti alla diligenza” da molte parti perché significherà mantenere inalterati – se non migliorati - qualità e quantità di servizi alle comunità spendendo meno del passato.

La difficoltà, è bene dirlo, non verrà solo dai privati che forniscono servizi, ma anche e soprattutto dalle municipalizzate (che sono amministrate da eletti dagli enti locali) che continuano ad operare in regime di monopolio e che faranno opposizione quanto verranno messe a confronto tra di loro.

Solidarietà fra Regioni
E’ il tema forse più delicato poiché è direttamente legato al diverso sviluppo economico tra le Regioni e quindi al diverso livello di reddito e ricchezza.

Solo sei regioni (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Piemonte e Toscana) spendono meno di quanto incassano, ma se andiamo a vedere la spesa pro capite ecco che le Regioni che spendono meno sono Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia.

Ciò significa che le Regioni che producono più Pil si possono permettere maggiori spese (a parte il Veneto virtuoso che spende quanto la Sicilia), mentre le altre, per non sentirsi in debito in via perpetua, dovranno inventarsi qualche cosa per raggiungere la ricchezza delle altre regioni.

Qui sta il busillis: l’alternativa è economizzare (ma come ) oppure aumentare la pressione fiscale accelerando una spirale involutiva.

Di questo annoso problema – lo sviluppo economico disomogeneo dell’Italia – non se ne parla e non se ne può parlare nella legge sul Federalismo fiscale, quasi a significare che altre sono le funzioni dello stato che si devono occupare di questo.

Questo Governo ( ma per la verità anche i precedenti visto che di federalismo se ne parla da almeno 15 anni con i primi timidi atti del primo Governo Prodi) non sembra preoccuparsene se non con enunciazioni di principio - il Mercato se possibile, lo Stato se necessario (Tremonti) - ma senza lasciare nemmeno trasparire iniziative che portino alla crescita queste regioni.

Già: il problema non è semplice perché molte sono le cause (“la questione meridionale” si trascina ormai dall’unità d’Italia) e molte dipendono dall’inefficacia dei governi susseguitisi dal dopoguerra che non sono riusciti a rimuovere le cause, soprattutto, sociali che hanno appesantito, come piombo, queste economie.

Autonomia impositiva per tasse e tariffe

E’ il principio forse più preoccupante per gli italiani perché se da un lato l’obbiettivo è quello di spender meno e meglio, esiste pur sempre questa valvola da aprire che stravolgerebbe l’impianto di questa legge.
E’ un aspetto questo appena sfiorato nella presentazione, ma che è stato anticipato da interventi vari nelle scorse settimane (quando si trattava di reintrodurre l’Ici o tassa equivalente che riassumesse molte tasse e tariffe locali) e che preoccupa non poco gli italiani.

Una cosa infatti è sostenere la tesi che ognuno cerca di spender al meglio quanto frutta il prelievo fiscale (destinando comunque una quota a stato e regioni più povere), altra cosa è dire maggior tassazione (o tariffe) a chi vuole maggiori e più qualificati servizi.

In questo senso gli italiani sanno benissimo che non ci sono limiti alle fantasie degli amministratori locali o delle municipalizzate (l’ultima è a Ravenna che vuol far pagare l’acqua piovana) e che soprattutto queste si trasformano sempre in maggiori costi per i contribuenti, mai nel contrario.

Il mio atteggiamento sul federalismo fiscale è quindi di scetticismo misto a prudenza: staremo a vedere.